Chissà? Viene il dubbio che fosse necessario un nuovo presidente estraneo alla Compagnia di giro dei soliti noti che si occupano di previdenza e che il XXIII Rapporto annuale dell’Inps venisse presentato in presenza del presidente della Repubblica e di altri dignitari delle istituzioni. Fatto sta che il Rapporto del 2024 riferito al 2023 reso noto nei giorni scorsi dalla solennità della Camera ha avuto l’effetto di una palla di bowling sui birilli dei luoghi comuni, delle fake news che hanno accompagnato dal 2012 in poi (ovvero dall’entrata in vigore della riforma Fornero) la telenovela delle pensioni.

L’aspetto più noto pone a noi tutti una domanda su come abbia potuto essere presa sul serio la propaganda di Matteo Salvini che ha contribuito – nell’ora più buia della storia recente – al buon risultato elettorale della Lega nel 2018. Grande è stata la responsabilità dei media soprattutto televisivi che hanno valutato più conveniente – ai fini dello share – accreditare una versione catastrofica degli effetti di una riforma che nel frattempo faceva il giro del mondo insieme ad Elsa Fornero, il ministro che le aveva dato il nome. La prima grande mistificazione fu quella degli esodati: per mesi i talk show televisivi ospitarono persone che avevano concordato con i loro datori, nell’ambito di un negoziato sindacale o con una trattativa privata, delle extra liquidazioni il cui ammontare era traguardato ad una continuità di reddito durante la transizione tra la cessazione del rapporto di lavoro e la maturazione dei requisiti per il pensionamento.

Al fondo c’era un problema reale, la cui soluzione “politicamente corretta’’ ha richiesto ben nove provvedimenti di sanatoria che hanno garantito a circa 200mila persone di andare in quiescenza sulla base dei requisiti previdenti la riforma del 2011, nonostante già la prima realizzata dallo stesso governo Monti avesse in larga parte sistemato i veri casi della penalizzazione dell’esodo. Di conseguenza la fattispecie degli esodati non sarebbe stata tanto numerosa (ed onerosa nel sottrarre risparmi di spesa) se non si fossero aggiunti altri casi del tutto diversi, tanto che, a commento dell’operazione, l’Ufficio Parlamentare del Bilancio (Upb) scrisse in un focus sul tema al momento della settima salvaguardia che in realtà l’operazione si profilava come “una soluzione per mettere al riparo platee più ampie e non necessariamente, o non tutte, danneggiate in maniera diretta dalla riforma, utilizzando le salvaguardie come surrogato di politiche passive del lavoro o di altri istituti di welfare oggi sottodimensionati o assenti’’.

Un’altra fake news cha ha attecchito nella propaganda contro la riforma Fornero è stata ricordata nei giorni scorsi nella sua rubrica quotidiana su La Stampa da Mattia Feltri, che ha fatto una raccolta di tutti gli attacchi che Salvini dal 2012 in poi ha rivolto alla professoressa/ministro con una critica di fondo a quelle norme: nessuno in Italia sarebbe più andato in quiescenza se non all’età di Matusalemme. I dati resi noti nel XXIII Rapporto non sono come il Rapporto segreto di Kruscev al XX congresso del Pcus, ma reperibili dalle fonti ufficiali. Bastava solo leggere i documenti pubblicati periodicamente dall’Inps. Ma come stanno davvero le cose? Le pensioni italiane sono le più generose d’Europa per quanto riguarda l’età media effettiva alla pari 64 anni e due mesi, contro i 67 previsti come requisito ‘’base’’. Ma questa ‘’media’’ merita un’ulteriore spiegazione perché tiene insieme l’età media del trattamento di vecchiaia (67 anni) e quella delle pensioni anticipate (61,7 anni).

La prima tipologia è utilizzata (forzatamente) dalle lavoratrici; della seconda si avvalgono prevalentemente – soprattutto nei settori privati – gli uomini. Perché capita questa diseguaglianza di genere nonostante l’uniformità delle norme per uomini e donne? La spiegazione va trovata nella condizione dei due generi nel mercato del lavoro. Per andare in pensione anticipata occorrono – a prescindere dall’età anagrafica – requisiti contributivi molto elevati: attualmente 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne. Queste ultime restano mediamente al lavoro per circa 28 anni, mentre gli uomini per oltre 37. I motivi di questo divario sono intuitivi. Ciò significa che molte donne sono costrette ad avvalersi dei 20 anni di anzianità di servizio previsti per la vecchiaia, ma devono aggiungere il requisito anagrafico dei 67 anni. Questa differenza nella storia contributiva è anche il principale motivo del fatto che le pensioni delle donne – come ha certificato il rapporto – sono più basse di quelle degli uomini.

Un’ulteriore prova del gender pay gap: su totale di 16.205.319 di pensionati, 7,8 milioni sono maschi e 8,4 milioni donne, cioè il 52%. Che tuttavia, percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici, ovvero 153 miliardi di euro, contro i 194 miliardi dei maschi. L’importo medio mensile dei redditi pensionistici percepiti dagli uomini risulta superiore a quello delle donne di circa il 35%. Per gli uomini, infatti, il reddito da pensione è in media di 2.056,91 euro mentre per le donne è di 1.524,35 euro. Secondo l’Ocse, l’importo medio delle pensioni è superiore a quello delle retribuzioni. Per di più nell’ambito della vecchiaia sono le donne – e solo loro – ad aver subito una “stangata’’ sull’età del pensionamento, perché nell’ambito delle riforme si è aggiunta anche la parificazione dell’età pensionabile con quella degli uomini, recuperando gradualmente i cinque anni di differenza (da 60 a 65anni). E su questo punto la riforma Fornero è intervenuta pesantemente anticipando al 2018 il percorso di omogeneizzazione il cui esaurimento era programmato per il 2024.

Ma questo aspetto (le donne erano le vere ed uniche penalizzate) non lo ha mai rilevato nessuno. I discorsi di Salvini erano tutti concentrata sul pensionamento di anzianità, come se il vero problema del sistema fosse quello di anticipare il più possibile l’uscita dal lavoro, in vista di un ricambio anziani/giovani che si è perso per strada. Il regime delle quote – a partire da quota 100 – si riferiva nei fatti alla componente (maschile, settentrionale, baby boomer) che era in condizione per la sua storia lavorativa di avvalersi dell’anticipo anche attraverso i numerosi canali di uscita anticipata paralleli a quelli ordinari (precoci, lavori disagiati, ape sociale, ecc.). Insomma, l’Italia è il paese dell’anticipo: oltre la metà della spesa è destinata a pensioni di anzianità o anticipate; nello stock le prime superano di 2 milioni le seconde. Di questa patologia cominciamo a trovare le conseguenze anche nella crisi dell’offerta di lavoro che non è solo una questione di competenze (ovvero di qualità), ma di persone che non sono nate in numero adeguato (ovvero di quantità).

Dal 2019 al 2022 sono state erogate mediamente ogni anno 500mila trattamenti anticipati. Poi con l’avvento della destra al governo (compresa la Lega) ciò che le quote hanno dato le quote stesse hanno tolto. Nel 2023, le nuove prestazioni previdenziali sono diminuite del 4,7%, principalmente a causa della riduzione delle pensioni anticipate (-15,5%) legata all’inasprimento dei requisiti di Quota 100. Le nostre pensioni sono, in media, piuttosto generose: il tasso di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione è tra i più elevati in Ue, quasi 15 punti percentuali sopra la media europea. Nel 2021, segnala il Rapporto Inps, la spesa previdenziale italiana è stata pari al 16,3% del Pil, inferiore solo a quella della Grecia, a fronte di una media europea del 12,9%.

Ma gli aspetti finanziari sono secondari rispetto a quelli demografici (anche se il risultato di esercizio dell’Inps nel 2023 si è ridotto di 5 miliardi rispetto all’anno precedente). E qui sta l’ingorgo: nei prossimi anni aumenterà il numero dei pensionati classificabili come anziani/giovani mentre diminuirà – perché non sono nati in misura adeguata – i contribuenti in un sistema di finanziamento a ripartizione. Tutto ciò al netto di tanti altri motivi come le condizioni occupazionali ed economiche delle generazioni che entreranno nel mercato del lavoro. Sono assolutamente prevedibili gli effetti dell’intrecciarsi di questi processi: nel giro di una ventina di anni sono previsti 25 milioni di nuovi pensionati in più contro almeno 5 milioni in meno di persone in età di lavoro, pur confidando in un adeguato afflusso di lavoratori stranieri, che tuttavia, dal 2014 non è più in grado – nonostante il saldo positivo – di compensare lo squilibrio italiano.