C’è da costruire un mondo migliore, una città migliore e gli architetti sono pronti a scendere in campo. I lunghi giorni di lockdown ci hanno costretto ad una reclusione forzata e reclusi a casa non si può non pensare e ripensare. La vita si svolge nella cellula abitativa che diventa scuola, posto di lavoro, luogo di svago e gioco e pertanto necessita più che mai di ampi spazi. Quegli spazi che erano stati ridotti all’osso, a quadrature minime di monolocali senza sfogo esterno, ora appaiono prigioni a confronto di abitazioni magari fuori centro con terrazzo e giardino annesso. Le strade sono vuote, i centri commerciali deserti, ristoranti, bar e piazze perdono all’improvviso la loro centralità, l’ unità abitativa diventa il nostro mondo. Cambiano le condizioni al contorno, si evitano i mezzi pubblici di trasporto, insomma buona parte dei comportamenti che fino a oggi si caldeggiavano vanno ora in controtendenza e diventano un minus a favore del distanziamento sociale e della ricerca di spazi non affollati. Si tratta proprio di un problema di spazi pubblici, gli stessi che prima avevamo progettato quali smisurati luoghi di incontro e ora diventano inutilizzati.

La pandemia di sicuro influenzerà i nuovi modelli del costruire e l’urbanistica in generale. Ma non è una novità se pensiamo che, fin dalla metà dell’Ottocento, si è cominciato a prendere coscienza delle gravi condizioni igieniche determinate dalle caotiche agglomerazioni e nasce una regolamentazione igienica ed edilizia. La pianificazione tenta di risolvere attraverso piani urbanistici la congestione della città. In Francia, in Gran Bretagna, in Germania nascono i quartieri operai, dove le case sono collocate in un giusto rapporto tra loro, gli spazi pubblici e i servizi. Nascono delle “città satellite” indipendenti che potrebbero oggi essere borghi autosufficienti dove i residenti possono raggiungere in 15 minuti tutto ciò di cui hanno bisogno, dal settore lavorativo a quello ludico, sul modello ipotizzato dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo.  Come accadde per le precedenti pandemie, anche oggi dobbiamo immaginare una Napoli post-pandemica come una sfida e sfruttare la crisi per rielaborare strutture di nuovi città diverse dalle megalopoli, fatte di micro-città con un insieme di servizi distribuiti su tutto il territorio. Del resto i piccoli centri urbani sono quelli che hanno retto meglio ai contagi. Avremo nuovi riferimenti urbani a scala ridotta, la via sotto casa diventerà la strada principale, piccoli negozi sopperiranno alla grande distribuzione.

Gli architetti dovranno trasformare lo spazio e la forma di ciò che ci circonda per meglio adattarli ai comportamenti delle persone alle nuove esigenze. Bisogna attivare una rigenerazione dei piccoli quartieri, ritornando alla centralità dei rapporti interpersonali. Come già disse Aristotele secoli fa, “non si deve confondere grande città e città popolosa”. In tal senso potrebbe essere un’idea quella di recuperare quartieri caratterizzati da edifici dismessi, anche a iniziativa privata, al fine di reinventarli a servizio di questa nuova filosofia urbanistica, nella speranza che questo sogno possa trovare il supporto della politica lungimirante scevra da pastoie burocratiche, senza la endemica diffidenza che fino a oggi ha caratterizzato il rapporto pubblico-privato.