Le crisi provocano discontinuità. Spesso la storia si arrampica lungo tornanti inattesi, rimescola le carte. Bisogna essere pronti a cogliere l’attimo. Dopo anni di sbornia antistatalista e di peana alla privatizzazione sfrenata, la pandemia ha riportato tutti coi piedi per terra. La salute pubblica, le politiche di sostegno ai ceti più deboli e il complesso mondo della scuola e della conoscenza necessitano di investimenti massicci in capo allo Stato, così come le infrastrutture materiali e digitali e le imprese per fuoriuscire dall’emergenza. Insomma, uno Stato umanizzato fondato su un nuovo patto sociale e su un moderno welfare, nella cornice di un’Europa più coesa e dunque in grado di competere sull’asse Cina/Stati Uniti d’America. Inutile girarci intorno: proprio quanto la cultura del socialismo riformista propone da tempo. La tradizione socialista di volta in volta è stata evocata ma senza che nessuno ne abbia tratto le dovute conseguenze.

Prima, nella seconda metà degli anni 90, la si è rinchiusa in una fantomatica “terza via” partorita nell’universo postcomunista, poi, più recentemente, è stata adottata da correnti di partito, da movimenti e da singoli soggetti, in ultimo il sindaco di Milano, pur senza mai fare i conti con la versione italiana. Anzi. Si è preferito rincorrere esperienze maturate all’estero, dal Portogallo ai paesi nordici, invece di confrontarsi con la nostra storia, creando spesso pantheon artificiosi figli di narrazioni che hanno espunto dalla vicenda politica protagonisti che hanno reso l’Italia più libera e più civile. Solo un esempio, l’ultimo in ordine di tempo: lo Statuto dei Lavoratori voluto dal ministro Brodolini e scritto da Gino Giugni. Entrambi obliterati di fatto dalla cronaca recente.

Non si tratta soltanto di contestare con argomenti una revisione che cerca di cancellare o, peggio, nascondere, interi pezzi di storia patria. Il punto è politico. Gli ideali del socialismo riformista mantengono integro il loro valore tanto più in questo tempo di emergenza economica e sociale, tanto più quando a misure tampone, rese necessarie dall’esplodere della pandemia, devono seguire un progetto di società e una visione lunga perché la rinascita abbia solide fondamenta. Siccome non vi è un erede a sinistra, se non il Psi, di questo straordinario romanzo popolare, dal Psi bisogna ripartire per mettere al servizio degli italiani idee ed azioni di giustizia sociale e di progresso civile, nella perfetta sinergia di diritti da godere e di responsabilità di cui farsi carico.

L’Italia uscirà dall’emergenza sanitaria più tardi di altri paesi europei, più fragile, con fratture più evidenti, un quadro non dissimile dagli anni postbellici. Affidarne la cura a governi litigiosi e afflitti da “presentismo” ritarderebbe il raggiungimento di rive sicure. Non invochiamo la riscoperta delle nazionalizzazioni. Quel che serve è un ruolo più radicato dello Stato nei settori vitali e l’autorevolezza della politica. Non invochiamo il dualismo Governo-Presidenti di Regione. Quel che serve è una Costituente che ridisegni i poteri statuali assegnando funzioni certe al Parlamento e coinvolgendo società di mezzo e sindaci secondo i principi di mutualità e sussidiarietà. L’approdo al futuro è il ritorno ai valori delle origini, a cominciare da un certo internazionalismo il cui significato contemporaneo è tutto nella lotta ad una globalizzazione sfrenata, condotta com’è da alta finanza e multinazionali, dunque una scommessa decisa sugli Stati Uniti d’Europa.

Questo percorso non può essere affidato né al Pd, le cui anime ancora oggi rifuggono da un confronto serrato con le problematiche sollevate in anni passati dal socialismo italiano, né tantomeno all’universo della sinistra italiana, oscillante tra populismo ed antieuropeismo grillino e frange che troppo spesso si richiamano alla tradizione berlingueriana. È dal Partito Socialista che bisogna ripartire, rafforzandolo per porlo al centro di un’alleanza riformista che si ponga l’obiettivo di cambiare l’Italia.