Mentre da un lato la Consulta emette una sentenza storica dichiarando incostituzionale la parte della legge spazzacorrotti che estende retroattivamente il divieto di misure alternative al carcere per i condannati per reati corruttivi, dall’altro, la prima sezione penale della Corte di Cassazione decide, su impulso del Ministero della Giustizia, di rinviare alle Sezioni Unite la questione del computo degli spazi in cella ai fini della corresponsione o meno dei rimedi risarcitori previsti dall’art. 35 ter dell’Ordinamento penitenziario per quei detenuti che siano stati costretti a vivere in una cella avendo a disposizione uno spazio inferiore ai tre metri quadri.

Dalla parte della Corte Costituzionale la pena viene pesata e valutata al punto che se una legge successiva alla commissione di un reato corruttivo preveda – diversamente dalla normativa preesistente – esclusivamente il carcere anziché la possibilità di accesso alle misure alternative, la sua applicazione non può essere retroattiva perché si violerebbe l’articolo 25 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Principio, quello dell’articolo 25, da legare strettamente all’articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che garantisce il principio di “prevedibilità”, nel senso che ogni persona deve conoscere anticipatamente quali condotte siano considerate un reato e quali pene siano previste per tali azioni.

Dalla parte del Ministero della Giustizia la pena del carcere non solo viene sempre più considerata come unica pena in dispregio dell’articolo 27 della Costituzione che parla, invece, di “pene” al plurale, ma la si vuole così afflittiva (e quindi affatto rieducativa) da stare a giocare con i centimetri pur di non pagare ai detenuti quei risarcimenti che il legislatore, nel 2014, è stato costretto ad inserire nel nostro ordinamento a seguito della sentenza Torreggiani del 2013; sentenza con la quale la Corte EDU ha condannato l’Italia per il sovraffollamento che determina condizioni di vita detentive disumane e degradanti.

Preoccupa, e perciò dovrebbe occupare tutti i democratici del nostro Paese, questa distanza che si fa sempre più evidente dai principi e dal rispetto dei diritti umani fondamentali da parte dei rappresentanti delle istituzioni. I rimedi risarcitori dovrebbero vedere il Ministero della Giustizia strenuamente impegnato a rimuovere le cause che generano il sovraffollamento penitenziario, magari prevedendo un maggiore accesso alla pene alternative. E, invece, ci tocca scoprirlo affannato a contendere al carcerato il centimetro in una cella sperando che le Sezioni Unite della Cassazione considerino il letto (perfino quello a castello a due o tre piani) o gli armadietti e gli altri arredi, come spazio vivibile, calpestabile e adeguato al movimento dei detenuti ristretti in una cella.

Andarsi a rileggere la sacrosanta normativa riguardante il benessere animale negli allevamenti dei suini, può essere utile agli attori che si confronteranno in Cassazione sugli spazi detentivi degli esseri umani. Glielo suggerisco. Il Decreto Legislativo 20 febbraio 2004, n. 53, a proposito dei suini adulti, recita: «I recinti per i verri devono essere sistemati e costruiti in modo da permettere all’animale di girarsi e di avere il contatto uditivo, olfattivo e visivo con gli altri suini. Il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 mq».