Tradizionalmente, le forze politiche che intendono promuovere riforme volte a contrastare le diseguaglianze tra i gruppi e le persone sono caratterizzate da aspirazioni universalistiche, che mirano a unire gli esseri umani al di là delle loro differenze. Tuttavia, negli ultimi decenni si è fatta avanti l’idea che l’universalismo tende a ignorare le discriminazioni culturali e simboliche subite da minoranze etniche e sessuali storicamente svantaggiate. Si è così affermata l’idea che un’equa considerazione sociale non possa essere sanata né dalle norme di pari trattamento che garantiscono l’equiparazione giuridica di tutti i cittadini né da indennizzi materiali.

La politica della differenza

Per raggiungere la vera “parità”, occorre rinunciare all’idea che i governi trattino tutti i cittadini nello stesso modo, a prescindere dal gruppo identitario di appartenenza. È necessaria, invece, una “politica della differenza” per combattere i sistemi di regole – per lo più, anche se non sempre, informali – che determinano la posizione dei soggetti in termini di prestigio o di disvalore, di potere o di subordinazione. Questo orientamento si nutre di molteplici influenze culturali (postcolonialismo, postmodernismo, teorica critica della razza), ma ha trovato una importante fonte di ispirazione in un libro, Le politiche della differenza, di Iris Marion Young, pubblicato originariamente nel 1990 e oggi opportunamente riproposto dalla casa editrice Società Aperta, che può aiutare a comprendere l’attuale tendenza a portare avanti i conflitti politici in relazione ai problemi che riguardano i valori e l’identità piuttosto che l’economia o le questioni specificamente sociali.

Il sistema giuridico è astratto

Perché “politiche della differenza” e non politiche impegnate a correggere i processi sociali strutturali che incidono sulla distribuzione delle risorse o sulla qualità della vita? Perché, così si sostiene, le graduatorie di valore che impediscono a gruppi o a individui di valorizzare la propria identità non riescono quasi mai a raggiungere il livello di astrazione in cui opera il sistema giuridico. Il misconoscimento provoca infatti in coloro che si ritengono privati di un’equa considerazione sociale una lesione alla stima di sé che richiede un pubblico riconoscimento della loro “differenza”. E ciò suggerisce l’esigenza di spostare il discorso pubblico dalla sfera politico-materiale alla sfera politico-culturale, come si può osservare dall’attenzione talvolta ossessiva prestata agli aspetti simbolici del discorso, ad esempio per la richiesta di soluzioni grafiche o espressive “non discriminatorie” come la sostituzione di desinenze maschili e desinenze femminili con asterischi creati ad hoc. A essere messi in discussione sono perciò anche valori universali come la libertà di parola e la neutralità delle regole, considerati quali strumenti che perpetuano emarginazione e sofferenza.

La dimensione delle diseguaglianze

Ora, le critiche rivolte al concetto di eguaglianza portate avanti in nome della differenza hanno aiutato a mettere in luce il fatto che i codici e i simboli culturali dominanti possono ostacolare l’eguale partecipazione all’interazione sociale di particolari gruppi o individui. Rischiano però di lasciare sullo sfondo le crescenti diseguaglianze sociali intese nel senso della diversità nelle condizioni di vita materiali. È vero cioè che le politiche della differenza hanno contribuito a ricordare i limiti di certe concezioni dell’eguaglianza e a contrastare la scarsa attenzione per la dimensione del dominio culturale e simbolico, contrastando i pregiudizi di cui soffrono particolari gruppi a causa di processi storico-sociali e culturali di misconoscimento. Tuttavia, la conseguenza – indiretta o involontaria – di questa prospettiva è stata quella di distogliere l’attenzione dalla dimensione delle diseguaglianze materiali riconducibili alla posizione socioeconomica, alla distribuzione del reddito e al modo in cui le forze di mercato determinano i profitti che spettano ai detentori di capitali.

Come dicono gli afroamericani, la ricchezza sbianca

Lo spostamento dell’attenzione dalla diseguaglianza alla differenza, dalla sfera materiale alla sfera simbolico-culturale, viene compiuto con lo scopo di contrastare un ordine sociale che attribuisce ad alcuni individui o gruppi un marchio sociale stigmatizzante. Ciò lascia tuttavia in ombra una realtà difficilmente contestabile, e cioè che qualunque politica di “trattamento preferenziale”, per quanto ragionevoli ne possano essere le motivazioni, rimarrà sostanzialmente inefficace sino a quando non saranno affrontate le strutture di dipendenza create dalle diseguaglianze materiali. Può darsi che risposte efficaci sul piano delle diseguaglianze materiali non siano risolutive, ma sono queste risposte a costituire il primo passo per sanare la ferita alla stima di sé del gruppo sociale che non viene riconosciuto. È quanto, in fondo, afferma il detto che circola tra gli afroamericani, e cioè che “la ricchezza sbianca”.

Questione culturale e questione sociale

Inoltre, l’attenzione prioritaria concessa alla questione culturale rispetto alla questione sociale può risultare controproducente per il progresso verso una vera uguaglianza. Per quanto sostenuta da buone intenzioni, rischia di creare divisioni sociali anziché promuovere una solidarietà collettiva e di acuire la competizione tra gruppi e individui, minando la coesione sociale e la fiducia reciproca basata su valori condivisi. Può certo ricordare i limiti di certe concezioni dell’eguaglianza e contrastare la scarsa attenzione per la dimensione del dominio culturale e simbolico. Tuttavia, la definizione delle persone in relazione alle sole categorie identitarie rischia di privare gli individui della possibilità di essere considerati nella loro concreta individualità. Le politiche della differenza, infatti, non valorizzano pienamente la complessità di ogni singolo essere umano e lo colano invece nello stampo di una identità monocroma. E ciò rischia di generare una società frammentata, una costellazione di individui che non sono più in grado di fare società e dove l’enfasi sulle identità conduce a una competizione senza sosta fra tribù ostili l’una all’altra.

Edoardo Greblo, Luca Taddio

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