«Occorre anzitutto far prevalere l’interesse del minore che non può essere garantito all’interno delle mura di un carcere». Parole chiare, quelle di Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale Transnazionale, impegnata in prima fila nella intensa battaglia in punta di diritto – pienamente conforme alla tradizione radicale – per l’abolizione delle carceri minorili. Concetti limpidi come il cielo sereno e il colore blu scelto dall’Unicef per riaffermare, nel trentesimo anniversario dalla firma in sede Onu, avvenuta il 20 novembre del 1989, tutti i valori contenuti nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Il Partito Radicale, seguendo pedissequamente il metodo dello storico leader, Marco Pannella, ovviamente ha portato l’impegno alle conseguenze estreme, fino ad arrivare nel buio delle celle dedicate a quei ragazzi che compiono reati prima di aver compiuto il diciottesimo anno di età. Nonostante il carcere minorile sia la extrema ratio tra le pene attuabili – e quindi il sistema vigente basato sul criterio della residualità – nei diciassette istituti penali minorili, distribuiti sul territorio nazionale, i detenuti attualmente ristretti sono 390. Quelli di età dai 14 ai 18 anni sono meno di 200.

La gran parte di essi, provengono dal sud, e in particolare dalla Sicilia e dalla Calabria. Poco più del 41% ha meno di diciotto anni, i restanti, pur avendo compiuto il reato da minorenni, possono rimanere negli istituti minorili fino al compimento del venticinquesimo anno di età. Così come avviene nelle carceri per adulti, molti minori si trovano in regime di custodia cautelare in attesa di un giudizio definitivo. I reati più comuni sono quelli contro il patrimonio: furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Dai dati forniti dal Ministero della Giustizia emerge che i delitti a carico dei minorenni e dei giovani adulti entrati negli Istituti penali minorili per l’anno 2019 sono 1430: il 15 % sono reati contro la persona e il 13% per violazione della legge sulle droghe. C’è un sacerdote, è don Ettore Cannavera, che per ventidue anni è stato cappellano del carcere minorile sardo di Quartucciu, vicino Cagliari, fino a dimettersi per protesta e per dimostrare quanto quel luogo non servisse in realtà a nulla. Don Cannavera dallo scorso febbraio è addirittura membro del Consiglio generale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito che, anche in coerenza con la sua presenza, ha scelto di occuparsi a tempo pieno della tematica.

Da qui la scelta di organizzare nel congresso della “sezione” italiana degli iscritti al PR, tenutosi a inizio novembre a Napoli, una tavola rotonda incentrata proprio sull’utilità (o meno) dei centri di detenzione per giovani minorenni. Tra gli uditori presenti il presidente della Camera, Roberto Fico. «Privare un minore della libertà, degli affetti, significa impedirgli di poter compiere un reale percorso di reinserimento e di poter godere del diritto all’educazione, che in molti casi, non per sua colpa ma per il contesto che li ha portati a compiere il reato, gli è stato negato» ci ha spiegato la dirigente radicale Testa.  «La risposta civile che oggi noi possiamo dare a questi ragazzi è quella di chiedere alle istituzioni di farsene carico, attraverso quelle che sono le indicazioni della Costituzione, dei codici e delle convenzioni internazionali». Vale la pena, dunque, andare a consultare un po’ di dati e capire quali sono questi strumenti.  «Riteniamo che occorra una grande mobilitazione politica, culturale e istituzionale per superare non il concetto di pena, che pure deve essere espletata, ma la carcerazione all’interno delle prigioni» spiega ancora Testa che conclude: «Con il partito radicale e insieme a Don Ettore Cannavera ci siamo impegnati in questa iniziativa perché abbiamo l’obbligo di dare risposte educative, così come chiede l’articolo 27 della Costituzione, che parla di pena e non di carcere: una pena che tenda alla rieducazione e al reinserimento sociale».

Daniele Priori

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