Da tempo lo ripetiamo: il lavoro, l’industria e i temi della sostenibilità sono i nodi in cui il consenso populista inciampa. Il riscontro dell’inefficacia di questo approccio è piuttosto rapido.
Siamo passati dal governo Conte 1 a trazione Lega-M5s al Conte 2 a trazione 5S-Partito democratico, eppure il lavoro resta qualcosa di estraneo rispetto all’agenda politica del Paese.
Il lavoro è tra i principali terreni dove registreremo l’effetto combinato delle grandi trasformazioni in atto: demografica, climatica e digitale.  E il nostro Paese è in tremendo ritardo: se non si torna a investire perderemo terreno e raccoglieremo solo gli effetti negativi, tipici di chi viene marginalizzato dal gorgo dell’innovazione.
Abbiamo oltre 160 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico dove a fare purtroppo la parte del leone sono le aziende metalmeccaniche, da Sider Alloys, Arcelor Mittal (ex Ilva), Whirlpool a Bekaert, Blutec, Jabil, Firema, Jsw, ma sono tutti importanti. Sta finendo la cassa integrazione e in molti casi partiranno i licenziamenti.
Stiamo parlando di 90-200mila lavoratori che a seconda di come si risolveranno queste vertenze rischiano di rimanere a casa. Per questo domani 31 ottobre abbiamo proclamato uno sciopero di 2 ore in assemblea che proseguirà con la grande assemblea nazionale dei metalmeccanici prevista per mercoledì 20 novembre a Roma.
L’obiettivo?  Rimettere al centro il lavoro e l’industria. Il Pil è a zero e la cassa integrazione cresce vertiginosamente anche nelle aree che prima tiravano l’economia. La politica del pensiero corto,  quella che gratta la pancia alle persone, sta facendo arretrare il nostro Paese che, ricordo vive grazie alle esportazione e al benessere che crea la nostra industria. Il 52% dell’export e gran parte dei 47,5 miliardi di surplus commerciale che il nostro Paese ha realizzato lo scorso anno vengono dall’industria metalmeccanica. Essersi buttati sull’elettoralismo dei sussidi ha un conto salatissimo, un conto che se non ci diamo una sveglia rimettendo al centro il lavoro e l’industria pagheremo tutti, non solo i lavoratori delle aziende coinvolte. Insieme allo sciopero di domani in tutti i luoghi di lavoro,  ci sarà  una grande manifestazione a Napoli dove la Whirlpool sta chiudendo l’ennesimo stabilimento con il comizio conclusivo del Segretario Generale aggiunto della Cisl Luigi Sbarra.

Crescono solo cassa integrazione e gli infortuni

I decimali di aumento dell’occupazione fanno il paio con le ore lavorate in forte calo: 2,3 miliardi di ore in meno rispetto al 2007 e la crescita del part-time involontario. A questo si aggiunge una crescita della cassa integrazione. L’Inps segnala un +52% delle richieste di cassa a settembre con un boom delle ore di “straordinaria” anche nelle zone che avevano trainato l’export.
Anche i tanti, troppi infortuni sul lavoro, sono un segnale della crisi e della scarsa attenzione al mondo del l’impiego. Ci stiamo imbarbarendo e il deficit della cultura della sicurezza è solo uno dei segnali. Abbiamo superato i 700 morti da gennaio, centinaia di migliaia di infortuni, negli ultimi 10 anni sono morte 17mila persone sul lavoro. È una carneficina inaccettabile e l’indignazione passiva a ogni decesso non dà alcun contributo alla sicurezza. Bisogna partire dalle scuole ed educare al valore della sicurezza e della vita sia chi farà il lavoratore ma soprattutto chi farà l’imprenditore.
Nel centro Nord la deindustrializzazione è iniziata, nel Sud siamo alle battute finali. Carenze di infrastrutture, accesso al credito, burocrazia, costo dell’energia, criminalità organizzata, scoraggiano gli investimenti e fanno scappare quelli presenti. Quando si sente un sindaco proporre la nazionalizzazione di uno stabilimento di lavatrici, capisci quanto la demagogia cerchi di sostituire un totale analfabetismo lavorista e industriale.

Domanda di acciaio in picchiata

Al calo della domanda di acciaio, è troppo conveniente e facile sul piano politico dire che la produzione dello stesso non si concilia con l’ambiente , piuttosto che lavorare come è stato fatto in tutt’Europa per rendere sostenibile sul piano ambientale e sociale la produzione siderurgica.  I dati dell’European Steel Conference rappresentano un mercato dell’acciaio in picchiata.  Crolla la domanda d’acciaio e in parallelo assistiamo a un boom delle importazioni.
Sarà pur vero, che il mondo non ha imparato le lezioni di Lehman Brothers a dieci anni dal suo fallimento ma alla crisi di sistema, si aggiunge l’imbroglio sovranista. I tre nodi sono: la crisi dell’auto, la guerra commerciale tra Cina e Usa e la sovraccapacità produttiva di acciaio con i limiti dell’antitrust europeo che verifica le posizioni dominanti solo a livello continentale dimenticando che il primo produttore rischia di chiamarsi: importazioni asiatiche.
Con politiche spot ed eco-bonus non si gestisce la  grande transizione in atto nella mobilità e nel digitale.  Abbiamo  l’1% di colonnine per la ricarica (la gran parte a basso voltaggio e ricarica lenta), rispetto al resto d’Europa. Serve una politica che guardi al futuro della mobilità sostenibile che tenga conto delle infrastrutture e delle normative necessarie, accompagnando il settore dell’automotive e i lavoratori coinvolti verso questa transizione. La carenza di tutto ciò  in Italia sta rinviando le scelte di acquisto dei consumatori mettendo in crisi l’intero settore.
I trumpiani italiani non sanno che i lavoratori italiani stanno pagando la guerra commerciale e i rigurgiti pro mondo chiuso della demagogia sovranista.  Servono armi pari su commercio internazionale, emissioni, sostenibilità. L’antidumping europeo è sempre stato frenato dai paesi che avevano stabilimenti in Cina, come la Germania, o si recupera una visione europea a livello industriale o quella nazionale farà perdere tutti.
ArcelorMittal ha annunciato la chiusura degli altoforni in Spagna, Germania e Polonia. C’è una fretta della politica italiana di aggiungersi all’elenco.  Il caso dell’ex-Ilva è significativo di una  politica che invece di lavorare per il risanamento e la sostenibilità della più grande acciaieria d’Europa si mette di traverso senza proporre nessuna reale alternativa. Stiamo parlando di 3,6 miliardi di euro di investimenti per bonifiche e rilancio industriale, che rischiano di essere vanificati con uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro l’area a caldo, in cui la magistratura ha chiesto il fermo dell’Afo2 (altoforno) in una Regione in cui il governatore è esperto su che cosa devono fare gli altri ma assente sulle sue responsabilità e che durante la gara a evidenza europea non ha fatto segreto di preferire l’altra cordata. Lo stabilimento perde due milioni di euro al giorno, va messo a norma secondo le prescrizioni Aia. La scelta di un esterno al gruppo come a.d. sembra più dettata dal proteggere i propri manager, per il dopo 3 novembre, giorno in cui l’azienda sarà libera da vincoli e impegni, che il lavoro. Il rischio è assestarsi su un ripiegamento industriale e occupazionale come prologo al disimpegno totale nel nostro Paese, dando all’azienda un alibi clamoroso per farlo.

Scioperare per garantire il futuro dell’industria

Questo sciopero è solo l’inizio. Bisogna che la politica prenda consapevolezza dell’importanza dell’industria e occorre cancellare l’approccio ideologico sulle questioni del lavoro. Questo Paese ha bisogno di riforme profonde che detassino il lavoro e spingano gli investimenti. La cassa integrazione è cresciuta del 51% (a settembre), 75% su base annua e cresce soprattutto la straordinaria (+698%), quella che spesso è la vigilia dei licenziamenti. Frenano le esportazioni e frena il Nord: +175% di cassa integrazione a Nordovest, + 698% a Nordest. Cresce il lavoro a termine e aumentano i part-time obbligatori, servono tutele serie, non la demagogia del decreto dignità che ha aumentato la precarietà e la norma anti-delocalizzazione in esso contenuta non ha sortito a oggi alcun effetto.
Cgil, Cisl, Uil hanno presentato una piattaforma al nuovo governo Conte. È partito il confronto ma le risposte tardano ad arrivare. La nostra mobilitazione è a sostegno di quel confronto e di quelle richieste. Bisogna ridurre le tasse a chi le paga, lavoratori dipendenti e pensionati. Il condono fiscale, con oltre 700mila aderenti, è stato uno schiaffo ai contribuenti onesti.

Cosa fare per ripartire

Siamo un Paese record per la sua patrimonializzazione del risparmio, denaro che sta sempre più lontano dagli investimenti. Gli impresari della paura e gli antindustrialisti aiutano la metabolizzazione di un futuro catastrofico.
Non chiediamoci poi, perché immobilizziamo capitali e non li investiamo nell’economia reale.  Bisogna ripartire con il Piano Industry 4.0, rilanciare i competence center e i digital innovation hub, lavorare seriamente sui venture capital e costruire piani specifici per Pmi e microimprese,  soprattutto per il Sud del Paese.
Una prima cosa da fare subito? Mettere insieme una “rete italiana per l’innovazione” per le eccellenze che abbiamo, i nostri “Fraunhofer” come il Cefriel di Milano, Fbk di Trento, Link di Torino, S.Anna di Pisa, Cira di Caserta e dall’altro le Academy come Ios, Deloitte, Cisco a Napoli, realtà come Human Tecnopole a Milano  sul digitale. Ridare slancio ai competence center, è partito solo il Made a Milano,  ma bisogna andare più spediti.

Valorizzare il lavoro industriale

L’Italia spende zero sull’orientamento scolastico e lavorativo e poi ci si lamenta dello skill mismatch. Il disallineamento tra la professionalità richiesta e quella disponibile è causa di disoccupazione.
Non solo, è uno spreco di energie e aspirazioni vergognoso. Serve essere consapevoli della portata della grande trasformazione e che non è la tecnologia che cancella i posti di lavoro ma proprio la sua mancanza. La politica italiana è spesso incompetente e usa la tecnologia e i robot come elementi terrorizzanti. I politici in altri paesi studiano e sfidano l’impopolarità. Bisogna ripartire dal lavoro, e dai lavoratori. Questi  devono essere più esigenti con la politica. Il sindacato rappresenta l’incrocio formidabile in questa grande trasformazione per poter orientare a un lavoro “ben fatto con gli altri”. Oggi più che mai, anche nelle difficoltà della rappresentanza, il sindacato deve essere una forza che faccia convergere visione, obiettivi e pensieri in strategie di lungo periodo nell’interesse dei lavoratori e conseguentemente del Paese.

Segretario generale
della Fim-Cisl

Marco Bentivogli

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