Il susseguirsi di shock che ha colpito l’economia globale dall’inizio del 2020 evidenzia i punti di forza e le vulnerabilità dei diversi modelli di crescita dei principali blocchi: Stati Uniti, Cina e Unione Europea. Se i primi possono ancora contare sulla spinta del consumo interno, la Cina affronta la necessaria evoluzione di un modello di crescita ormai obsoleto. Presa a tenaglia da questa competizione sino-americana, l’UE si trova indebolita da una domanda interna fiacca e da uno sviluppo basato perlopiù sul commercio estero e il cui architrave – dipendenza dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia – è andato sgretolandosi negli ultimi tre anni.

Tuttavia, le carenze del modello di crescita europeo erano emerse già all’indomani della crisi finanziaria del 2008, che ha spinto la traiettoria del suo PIL su un sentiero di stagnazione. Basti pensare come il PIL dell’UE, allora leggermente superiore a quello statunitense ($16.2tn contro $14.7tn), alla fine del 2022 valesse il 75% dello stesso ($19,8tn contro $25tn).

La fragilità del modello economico europeo. Il modello economico europeo va misurato dai suoi risultati. Tra il 1999 e il 2022, la quota delle esportazioni nell’eurozona è passata dal 29% al 52% del PIL (contro 12,7% del PIL statunitense e 20,7% del PIL cinese). Questo fa sì che, rispetto a Stati Uniti e Cina, l’eurozona sia caratterizzata da una sovraesposizione commerciale: essa esporta più di quanto le famiglie consumino, laddove le famiglie americane consumano cinque volte di più delle esportazioni totali statunitensi.

Purtroppo, la qualità dei beni e dei servizi europei non basta a spiegare tali surplus commerciali, ottenuti invece a detrimento della domanda interna: più il continente esporta, beneficiando della crescita globale, e meno consuma in termini relativi, più grande sarà meccanicamente il surplus commerciale. In sintesi, l’avanzo commerciale europeo è il risultato di una debolezza interna che solleva degli interrogativi.

La debolezza della domanda interna. Tra il 1999 e il 2023 la domanda interna statunitense è cresciuta più del doppio rispetto a quella dell’eurozona. Ciò non è frutto del caso, ma conseguenza logica della politica macroeconomica adottata. Sia attraverso il Patto di Stabilità e Crescita (volto a limitare i deficit di bilancio) sia attraverso il mandato di stabilità dei prezzi della BCE, il disegno macroeconomico dell’eurozona è orientato verso una domanda interna debole, che si riflette principalmente nella scarsa crescita dei salari, cresciuti meno di un terzo che negli Stati Uniti tra il 1999 e il 2022 (10,3% contro 31,7%).

Se questi considerano l’aumento degli stipendi come un volano per la crescita, l’approccio europeo alla moderazione salariale fa parte di una strategia di competitività delle esportazioni. Ciò ha condotto l’eurozona su un sentiero di declino relativo sul piano geopolitico, di maggiore vulnerabilità nei confronti di Cina e Russia e di calo dell’occupazione con una stagnazione sostenuta dei redditi: elementi che minano la stabilità politica del continente.

L’aumento dell’inflazione minaccia la ripresa europea. L’impennata inflazionistica iniziata nell’estate del 2021 ha indotto la BCE a rivedere l’approccio avviato durante la pandemia (caratterizzato da pacchetti di stimolo senza precedenti, sia dal punto di vista fiscale che monetario) e ad annunciare una fase di stretta monetaria che, unita alla dinamica inflazionistica, ha avuto un impatto recessivo sulla domanda interna.

Sebbene di primo acchito una tal risposta appaia giustificata dai livelli d’inflazione dell’eurozona (oltre il 10% a fine 2022), la natura della stessa suggerisce una certa moderazione. Infatti a differenza degli Stati Uniti, dove una situazione di forte domanda interna giustifica la risposta della Federal Reserve, nell’eurozona l’inflazione non è il risultato di un eccesso di domanda di beni e servizi.

Se l’attuale strategia della BCE sta portando a un rallentamento della domanda interna europea, quella statunitense sta superando i livelli pre-crisi di oltre l’8%, indicando che la ripresa è riuscita a cancellare le tracce della pandemia sulla sua economia, nonostante un’inflazione media superiore all’8% nel corso del 2022.

Quale alternativa al modello di crescita europeo? Il modello di crescita europeo era idoneo ai primi due decenni del XXI secolo caratterizzati dal fiorire del commercio internazionale. Oggi è controproducente sia per i cittadini europei, che hanno subito una stagnazione dei redditi da lavoro, sia per la crescita del PIL, anchilosata dalla debolezza strutturale della domanda interna del continente.

Se l’ambizione dell’Europa è di agire autonomamente in ambiti politici strategicamente rilevanti (difesa, economia, energia), un cambiamento sostanziale del suo modello economico deve essere una priorità politica. Questa autonomia strategica è infatti antinomica rispetto a un modello di sviluppo che si basa sulla domanda esterna e che ha come corollario la sua debolezza interna. Al contrario, una BCE orientata al perseguimento della massima crescita potenziale e della piena occupazione offrirebbe migliori garanzie: un mercato solido per le imprese, una minore vulnerabilità nei confronti della domanda esterna, un aumento del reddito da lavoro della popolazione.

Un rinnovato modello macroeconomico sosterebbe la crescita europea in modo strutturale, innescando un aumento degli investimenti ed incrementando il potenziale di crescita futura. Infine, l’aumento del gettito fiscale derivante dalla crescita offrirebbe un maggiore margine di manovra di bilancio ai governi dell’eurozona.

Niccolò Bianchini e Nicolas Goetzmann

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