Per il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è un momento difficile. Dopo l’attacco ai soldati Usa in Giordania da parte delle milizie filoiraniane, il capo della Casa Bianca ha promesso che ci sarà una risposta e che l’Iran è ritenuto “responsabile” in quanto “sta fornendo le armi” a chi ha compiuto il raid mortale. La risposta è certa. Ma il presidente degli Stati Uniti ha chiarito ancora una volta quello che è stato sottolineato dagli alti funzionari della sua amministrazione: “Non credo che abbiamo bisogno di un conflitto più ampio in Medio Oriente, non è questo che sto cercando”.

La vendetta di Biden e le opzioni del Pentagono

Il Pentagono non ha escluso nulla. Colpire in territorio iraniano con un’operazione mirata e in modalità segreta è sempre stata un’opzione sul tavolo. Ma dal momento che le implicazioni strategiche sono molte, gli analisti hanno ipotizzato soprattutto una risposta contro la rete di milizie legate all’attacco, in particolare alla Resistenza islamica dell’Iraq, che negli ultimi tempi ha notevolmente alzato il tiro nei confronti della presenza militare Usa in Medio Oriente. Biden sa che da questa risposta possono derivare conseguenze importanti, sia a livello diplomatico che politico. Non vuole una guerra con l’Iran, pur ritenendolo il regista di questa escalation regionale. Allo stesso tempo, però, il leader democratico non può permettersi passi falsi né di mostrare debolezza dopo che tre soldati sono stati uccisi in un raid.

La campagna elettorale per le presidenziali e la grana politica estera 

Una debolezza che per Biden, visti i tempi della politica, può essere letale. La campagna elettorale avanza e non è un mistero che molti cittadini siano poco allineati con la politica estera dell’inquilino della Casa Bianca. I repubblicani sono divisi tra l’ala più radicale e trumpiana – che già aveva picchiato duro sulle guerre lontane combattute dai soldati Usa – e da un blocco più moderato che vuole mostrare la mancanza di reazione e incapacità di gestione della crisi da parte del presidente. In casa democratica, invece, c’è una considerevole fetta del partito che non vede di buon occhio l’impegno statunitense in favore di Israele e che vuole evitare che l’allargamento del conflitto a Gaza si espanda anche attraverso questa escalation che coinvolge le forze armate Usa nella regione. Questo discorso vale soprattutto per i giovani democratici, spesso apparsi profondamente scettici nei confronti del sostegno incondizionato allo Stato ebraico in questo complesso frangente della sua storia recente.

La guerra a Gaza e la trattativa per gli ostaggi

Sul fronte della guerra continuano intanto i negoziati tra le parti per raggiungere l’agognato cessate il fuoco con la parallela liberazione di parte degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. A questo proposito, prosegue l’incessante lavoro della diplomazia americana. Il segretario di Stato Antony Blinken ha incontrato a Washington il premier e ministro degli Esteri del Qatar, Mohamed bin Abdulrahman al Thani, uno dei protagonisti della mediazione su ostaggi e tregua tra Hamas e Israele. Il capo della diplomazia Usa, prossimo a tornare in Israele, ha voluto esprimere la “gratitudine per gli indispensabili sforzi di mediazione” di Doha. In questi giorni a Parigi si è raggiunta una sorta di intesa riguardo i binari in cui si dovrebbe incardinare il possibile accordo. Tuttavia sia da parte di Hamas che da parte di Israele sono stati ribaditi i punti fermi su cui entrambe le parti non intendono apparire rinunciatarie. Ieri, dopo che dall’ultradestra del governo israeliano sono giunti avvertimenti riguardo il possibile accordo, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha voluto ribadire che le forze armate dello Stato ebraico “non lasceranno Gaza” e che non saranno rilasciati “migliaia di terroristi”.

Di fronte agli studenti dell’accademia premilitare Bnei David, a Eli, Netanyahu ha promesso che l’unica cosa che accadrà sarà “la vittoria assoluta” di Israele, e che il suo governo “non metterà fine a questa guerra a meno che non si raggiungano tutti i suoi obiettivi”. Obiettivi che per il premier sono: “L’eliminazione di Hamas, il ritorno a casa di tutti gli ostaggi e la promessa che Gaza non sarà più una minaccia per Israele”. Per ottenere questi risultati, le Israel defense forces continuano intanto le loro operazioni all’interno della Striscia di Gaza ma anche al di fuori di essa, come confermato anche dal blitz delle unità dello Stato ebraico nell’ospedale di Jenin in Cisgiordania.

Le Idf hanno comunicato di avere effettivamente iniziato a pompare acqua all’interno dei tunnel sotto Gaza: quella rete “metropolitana” che è di fatto la vera grande arma strategica di Hamas e del resto delle fazioni palestinesi. E intanto, le truppe proseguono nelle loro avanzate nella parte meridionale dell’exclave palestinese, in particolare a Khan Younis, dove in questi giorni c’è stata anche un’irruzione all’interno degli uffici appartenuti al capo di Hamas, Yahya Sinwar. Tutto questo, mentre aumenta la pressione sull’agenzia Unrwa. Le accuse contro i dipendenti ritenuti complici di Hamas sono ritenute “credibili” anche da Washington.