A novembre scade l'ultimatum
Perché con lo scioglimento delle Camere la Consulta deve bocciare l’ergastolo
1. La crisi di governo e di legislatura – che rischia di far cadere l’Italia in un nodo scorsoio – ha molteplici effetti collaterali. Di uno, qui, intendo ragionare: il destino dell’ergastolo ostativo. Il destino, cioè, di 1280 detenuti (su 1822 condannati a vita) senza scampo e senza speranza per «quel manicheismo che esiste ancora» secondo cui «o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi» (così il Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, Corriere della Sera, 16 maggio).
Lo ricordava giorni fa, su queste pagine, Angela Stella (Il Riformista, 23 luglio): l’8 novembre 2022 scadrà il termine che la Consulta ha indicato al Parlamento per disinnescare il timer della sicura incostituzionalità – già accertata, ma non ancora formalmente dichiarata – di questo “fine pena mai” che della tortura giudiziaria replica il fine e della pena di morte la fine. Il conto alla rovescia per il suo superamento è iniziato quando la Corte costituzionale, in buona sostanza, ha detto al legislatore: «io non posso che accertare l’illegittimità dell’ergastolo ostativo perché non regge il confronto con gli artt. 3 e 27, comma 3, della Costituzione; tocca a te correre ai ripari entro un tempo congruo» (ord. n. 97/2021).
Quel termine, originariamente fissato al 10 maggio scorso, è poi slittato di altri sei mesi (ord. n. 122/2022) per consentire al Parlamento di completare l’iter di formazione di una riforma in materia, già approvata alla Camera ma non ancora al Senato. Ecco perché la crisi in atto ha molto a che vedere con questa neverending story: nella corsa contro il tempo per evitare la decadenza di riforme in tema di giustizia, avviate ma non concluse, può trovare posto anche quella dell’art. 4-bis, ord. penit.?
2. L’interruzione anticipata della legislatura mette a bordo campo il Parlamento. Per prassi consolidata, in caso di scioglimento delle Camere, l’attività legislativa di indirizzo e di controllo si restringe a pochi ambiti, riconducibili alla natura d’urgenza di alcuni adempimenti quali – ad esempio – la conversione dei decreti-legge, l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, l’attuazione di obblighi e impegni derivanti dall’adesione all’Ue. Al di fuori di questo stretto perimetro, per l’esame e l’approvazione di un disegno di legge è richiesto – prima in Commissione, poi in Aula – il previo consenso unanime circa la sua particolare urgenza.
Legislativamente parlando, dunque, la riforma dell’ergastolo ostativo non avrà un destino diverso da quello di altre riforme in itinere: suicidio assistito, cannabis, cittadinanza, patronimico, omotransfobia, violenza domestica, molestie sessuali sul lavoro (tra le altre). Tutte condannate a non vedere la luce. Ex malo bonum, verrebbe da dire pensando alla riforma legislativa in corso (A.S. n. 2574). A ragione, anche il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute, nella sua ultima relazione al Parlamento, ne ha criticato il disallineamento ai principi e ai parametri indicati nell’ord. n. 97/2021. Muore così una riforma che avrebbe avuto comunque vita breve. Requiescat in pacem, senza rimpianti.
3. In alternativa, potrebbe intervenire a riformare l’ergastolo ostativo il Governo Draghi, mediante un decreto-legge ad hoc? Qui le cose si fanno più complicate. L’art. 77 Cost. non esclude l’adozione di decreti-legge a Camere sciolte, prevedendo che queste «sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge del provvedimento provvisoriamente assunto dal Governo, anche dimissionario. A precludere l’agibilità della decretazione d’urgenza nel caso in esame, però, è l’assenza di uno dei suoi presupposti costituzionali: la straordinarietà. Non basta, infatti, che il decreto-legge sia necessario ed urgente, dovendo anche fare fronte a «casi straordinari», cioè imprevedibili. Ma ciò che è accaduto al Parlamento e in Parlamento è tutt’altro che imprevedibile.
Non lo è lo scioglimento anticipato delle Camere: ipotesi espressamente prevista in Costituzione (art. 88, comma 1) perché esito sempre possibile, ancorché in ultima istanza, delle dinamiche di una forma di governo parlamentare. Lo attesta la nostra storia repubblicana: dieci legislature (su diciotto) si sono interrotte prematuramente. Non lo è, soprattutto, la necessità e l’urgenza di riformare l’ergastolo ostativo entro la data indicata dalla Consulta. Che la preclusione assoluta alla concessione della liberazione condizionale generasse una pena illegittima, perché perpetua de jure e de facto, non è scoperta di ieri. Era il 5 ottobre 2019 quando – in via definitiva – la Corte di Strasburgo condannò l’Italia per il «problema strutturale» di una «pena perpetua non riducibile» lesiva della dignità umana, obbligando il nostro Stato a risolverlo tempestivamente (Viola c. Italia n°2).
Era il 20 maggio 2020 quando la Commissione bicamerale antimafia, nella sua relazione sull’art. 4-bis ord. penit., riconosceva che «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la CEDU». Era l’11 maggio 2021 quando la Consulta, per modificare un ergastolo ostativo altrimenti incostituzionale, concedeva alle Camere un «tempo congruo» di dodici mesi, poi dilatato di altri sei. In questo contesto, di straordinario – nel senso di sbalorditivo e stupefacente – c’è solo l’accidia di un legislatore che ha udito ma non ascoltato questi reiterati allarmi. Come il fatto e il mal fatto, così anche il non fatto è sempre espressione di una scelta politica, di cui il Parlamento – e le maggioranze da esso espresse nella XVIII legislatura – porta tutta intera la responsabilità.
4. In ipotesi, potrà accadere che nelle nuove Camere appena insediate la riforma dell’ergastolo ostativo riemerga con priorità assoluta, così da spingerle a legiferare in poche settimane entro la data indicata dalla Corte costituzionale. Ma è un pronostico da allibratore avventato.
Più credibile è un altro scenario, da gioco dell’oca: l’8 novembre la quaestio dell’ergastolo ostativo tornerà alla casella di partenza di Palazzo della Consulta. Pur di schivarne la formale dichiarazione d’incostituzionalità, c’è da scommettere che qualcuno accarezzerà l’idea di chiedere alla Corte di disporre il rinvio dell’udienza per la terza volta consecutiva: «La nuova legge sarebbe stata approvata in tempo, ma lo scioglimento anticipato delle Camere lo ha impedito», si proverà a questuare, magari con l’intercessione dell’Avvocatura dello Stato.
Giuridicamente sarebbe una richiesta imbarazzante, tanto per chi la formula quanto per chi la riceve. La Corte costituzionale, infatti, è giudice di ciò che il legislatore ha fatto o non ha fatto. Già con i due precedenti rinvii, si è impropriamente inventata giudice di ciò che il legislatore potrebbe fare. Un terzo rinvio risponderebbe all’idea balorda che la Consulta decide o meno sulla base di ciò che il legislatore avrebbe voluto ma non ha potuto fare. La Costituzione, in realtà, dice tutt’altro, chiamandola a giudicare di leggi, non di congetture o di desiderata parlamentari: questioni meramente ipotetiche sono del tutto estranee al suo sindacato. Senza contare che un terzo rinvio priverebbe per sempre di qualsiasi credibilità i moniti rivolti al legislatore, rivelando che la prima a non prenderli sul serio è la stessa Consulta.
L’8 novembre, quindi, i giudici costituzionali saranno soli e senza scuse. Perché, quando l’incostituzionalità di una legge è già stata accertata (e da tempo), la ragione giuridica deve prevalere sulla ragione politica, se non si vuole rendere volatile la legalità costituzionale. Cedendo alla tentazione di un ennesimo differimento della sua udienza, la Consulta sprofonderebbe invece di tirarsene fuori. Come nelle sabbie mobili.
5. Nel frattempo, qualcosa si muove ad erodere l’ambito di applicazione del regime ostativo penitenziario. È del 16 giugno scorso (ma depositata il 12 luglio) l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna con cui si riconosce ad un ergastolano ostativo l’accesso alle misure alternative – nel caso specifico, la semilibertà – pur in assenza di collaborazione con la giustizia. Si tratta di un approdo interpretativo che obbedisce alla più recente giurisprudenza costituzionale in tema di irretroattività della legge penale, ora inclusiva anche di quelle norme penitenziarie (le misure alternative) o ad esse analoghe (la liberazione condizionale) che comportino una trasformazione della natura della pena (sent. n. 32/2020).
Si affaccia così una nuova regola generale: a tutti i condannati per reati ostativi inclusi nell’originaria formulazione dell’art. 4-bis, ord. penit., commessi prima dell’8 giugno 1992 (data di entrata in vigore del decreto-legge n. 362 che ha introdotto l’obbligo di un ravvedimento operoso), l’accesso a misure extramurarie non va subordinato ad un’esigibile condotta collaborante. È una regola che potrà favorire una riduzione della platea di ergastolani senza scampo (ma non più senza speranza), detenuti da oltre trent’anni: accertati l’assenza di collegamenti con il sodalizio criminale, il sicuro ravvedimento individuale e un pregresso detentivo di almeno ventisei anni, potranno beneficiare della liberazione condizionale. Come è già accaduto (cfr. Tribunale di sorveglianza di Firenze, ord. 29 ottobre 2020, n. 3341).
Si va così a formare un diritto vivente costituzionalmente orientato, nel solco di quanto richiesto dalla stessa Consulta (sent. n. 193/2020).
6. C’è dell’altro, perché l’ergastolo ostativo è solo la cuspide di un problema più generale: l’eccedenza di automatismi legislativi ostativi in sede di esecuzione penale. La presenza, cioè, di troppe norme che – in forza di presunzioni assolute di pericolosità sociale – negano rilevanza agli esiti del trattamento penitenziario, spogliando così il magistrato di sorveglianza della sua funzione di giudice della persona ristretta in carcere.
Se ne tornerà a parlare a Palazzo della Consulta, dove già pendono due questioni di costituzionalità di grande rilievo. La prima, promossa dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, riguarda il divieto di accesso all’affidamento in prova ai servizi sociali per i rei di delitti ostativi che non collaborino con la giustizia. La seconda, sollevata da quello di Firenze, mette in discussione l’obbligatoria applicazione, la durata fissa e predeterminata, nonché l’impossibilità di una revoca anticipata della libertà vigilata. Entrambe, ovviamente, richiamano l’ord. n. 97/2021. Sarà istruttivo seguirne gli sviluppi, ora che la palla è alla Corte costituzionale: la giocherà come deve o la rinvierà nella metà campo del legislatore?
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