Il dramma dell'anarchico
Perché Cospito non può essere alimentato forzatamente, no al trattamento sanitario obbligatorio
Nella vicenda di Alfredo Cospito si intrecciano almeno tre questioni distinte e ciascuna di esse merita di essere adeguatamente affrontata. Innanzitutto, c’è la questione della tutela della sua vita e della sua salute. Subito dopo c’è la legittimità del provvedimento di applicazione del regime di 41bis e della sua perdurante attualità. Infine, c’è la questione dello stesso regime del 41bis. Tutte questioni che meritano risposte adeguate nel merito e nei tempi.
Innanzitutto bisogna ricordare che lo Stato, e specificamente l’Amministrazione penitenziaria, è responsabile delle condizioni di vita e di salute di Alfredo Cospito. Non certo della sua volontà di condurre il suo sciopero della fame anche fino alle estreme conseguenze, volontà che però non può essere coartata o negata, neppure attraverso forme di trattamento sanitario obbligatorio sotto forma di alimentazione forzata, se e quando dovesse perdere coscienza. I principi generali della equivalenza nelle cure delle persone detenute e delle persone libere e della prevalenza della volontà della persona sulle necessità dell’istituzione vale anche di fronte alle scelte tragiche, quando la persona detenuta abbia dato chiara manifestazione di non voler essere tenuto in vita contro la sua volontà.
Quel che l’Amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza competente possono e debbono fare, sulla base delle valutazioni mediche delle condizioni cliniche di Cospito, è decidere se e quando si manifesti necessario il trasferimento in ospedale, in modo da garantire nell’immediatezza gli interventi del caso che il paziente-detenuto ritenga di poter accettare sulla base del principio generale del consenso informato. Naturalmente è auspicabile che nel frattempo gli operatori sanitari e penitenziari a stretto contatto con Cospito, così come i Garanti, i Magistrati, i familiari e gli avvocati non rinuncino a convincerlo di recedere dalle sue intenzioni di portare lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze, sempre però rispettandone la volontà e la libera determinazione.
Distinta dalle sue condizioni di salute, c’è la questione della legittimità dell’applicazione del 41bis a Cospito. Anche se il Ministro ha respinto l’istanza di revoca presentata dal suo avvocato, è pendente il giudizio della Cassazione sulla decisione con cui il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto legittimo il decreto ministeriale di applicazione del regime speciale al militante anarchico, anticipato al prossimo 24 febbraio. E nuovi argomenti contro l’applicazione del 41bis nel caso specifico chiamano il Ministro a una rivalutazione del caso anche sulla base dei pareri resi nei giorni scorsi dalle autorità giudiziarie e investigative competenti.
Infine c’è la questione del regime previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, dalle sue circolari applicative e dalle prassi. La Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno più volte giudicato legittimo la specialità del regime. Non è in discussione, quindi, la legittimità del 41bis, ma le sue concrete modalità di attuazione. Ciascuno di questi pronunciamenti, infatti, ha posto o ha chiesto dei limiti al 41bis, invocandone la proporzionalità, la tipicità, la provvisorietà, la rivedibilità, la limitazione alle misure strettamente necessarie all’interruzione dei rapporti con l’esterno, la garanzia dei diritti umani fondamentali che vanno riconosciuti a ciascuna persona, anche in stato di detenzione, anche per fatti gravissimi, anche se costituiscono un pericolo per la società esterna.
Dunque, non è del 41bis in astratto che si discute, ma della sua attuazione concreta: delle persone sottoposte a un regime di sostanziale isolamento per dieci, venti, trenta o più anni; dell’immiserimento di ogni possibilità di relazione affettiva; delle vessazioni cui coloro che ne sono destinatari sono costretti in virtù di leggi, circolari e prassi su cui spesso le Corti superiori non possono dare risposte, mancando la fonte legislativa da impugnare. Addirittura il giudicato dei magistrati di sorveglianza viene sistematicamente disatteso, se non obbligato da un successivo giudizio di ottemperanza contro l’inazione dell’Amministrazione penitenziaria. Di tutto questo si può e di deve discutere.
Non per cedere a ricatti, ma perché lo hanno chiesto nelle loro deliberazioni il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il Garante nazionale delle persone private della libertà, la Commissione diritti umani del Senato e finanche la Corte costituzionale, quando ha legittimato il 41bis nella misura in cui anche i detenuti a esso sottoposto siano destinatari dell’offerta trattamentale per il reinserimento che spetta a tutte le persone detenute in virtù dell’articolo 27 della Costituzione. Di questo, dunque, si discuta, anche nelle sedi deputate, sulla base della copiosa documentazione istituzionale sulle storture e i limiti dell’applicazione concreta del 41bis, magari attraverso una indagine conoscitiva delle competenti commissioni parlamentari.
Infine, incidentalmente è emerso il tema della sorveglianza e della natura giuridica delle relazioni di polizia sulle informazioni raccolte in carcere durante le conversazioni tra detenuti, con i propri familiari o con persone in visita per funzioni istituzionali. Lungi da noi voler entrare nel merito della polemica politica, è emerso un difetto di regolamentazione legale di queste prassi che andrebbe colmato al più presto. E comunque va detto che le informazioni di polizia, a qualsiasi titolo raccolte, se rilevanti, vanno indirizzate all’autorità giudiziaria o alla superiore autorità di pubblica sicurezza, non già ai vertici ministeriali, politici o amministrativi, i quali per le determinazioni di propria competenza (l’adozione o il rinnovo di un decreto di 41bis, per esempio) raccolgono informazioni dall’autorità di pubblica sicurezza o dalle competenti autorità giudiziaria nei modi e nelle forme previste dalle legge.
Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà
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