Perché dilagano gli estremismi in Europa, ascesa della destra e crisi della sinistra: non è solo “emergenza democratica”
Il periodo di crisi economica e sociale ha portato 50 milioni di voti alle frange più radicali degli schieramenti politici dei paesi europei. Le motivazioni? Malessere e scontento.
La composizione del bacino elettorale dei tre schieramenti politici si è modificata sensibilmente dalla fase temporale A (che comprende gli anni a ridosso del 2006) alla fase B (gli ultimi sei anni).
Si potrebbe, cioè, rilevare da un lato un recupero della corrispondenza tra la distribuzione del proprio bacino elettorale e quella del corpo elettorale e dall’altro ulteriori margini, ma non troppo grandi, per una piena corrispondenza.
Un aspetto di particolare interesse, inoltre, riguarda i comportamenti evidenziatisi nei paesi del sud Europa, dove appare prevalente la preferenza di molti elettori all’astensione piuttosto che la scelta di un ulteriore consenso verso la destra. Se si considera che la sinistra in questa area rappresentava poco più del 50% dei voti espressi, è comprensibile la scelta di non andare a votare. Come pure, è probabile che l’offerta politica della destra nel suo insieme non sia apparsa affidabile. Più in generale, non si può non tener conto che, al di là delle adesioni “ideologiche”, il consenso elettorale è alimentato da una fitta rete di clientelismo, di assistenzialismo e di protezioni corporative che ha perso la sua efficacia per effetto della crisi economica e sociale di questi ultimi anni. È necessario, a completamento dell’indagine, approfondire anche più dettagliatamente il profilo dei tre schieramenti politici in relazione alla presenza delle diverse componenti interne.
L’area politica di “centro” si è contratta di circa 22 milioni di voti, pari al 20% della precedente consistenza. All’interno di questa tendenza, si registra, però, un mutamento dei rapporti interni tra le due componenti del “centro”: la popolare e la progressista: quest’ultima è costituita dai tradizionali partiti liberal-democratici e da altre nuove formazioni formatesi nel tempo. I partiti popolari sono stati penalizzati fortemente dagli elettori con una perdita di voti pari a circa il 38% (36 milioni di voti). Tale andamento negativo è comune in tutte le quattro aree geografiche europee, con una particolare accentuazione nel centro e nel sud dove si sono quasi dimezzati i voti. La componente “progressista” è cresciuta sensibilmente, con esclusione dei paesi del nord Europa (da 15,22% a 34,03%, circa 14 milioni di voti in più). Se da un lato, perciò, emerge un pesante giudizio sulla componente “popolare”, dall’altro la crescita dei progressisti può essere interpretata come una possibile alternativa moderata alle politiche del centro incapaci di fronteggiare la grave crisi economica di questi anni e di prospettare gli auspicabili miglioramenti delle condizioni economiche e sociali.
Anche la “sinistra” ha registrato un pesante ridimensionamento quasi della stessa dimensione dell’area di “centro”, con un calo di circa 20 milioni di voti pari al 18% di quelli precedenti. Le componenti della sinistra sono tre (socialista, estremisti, verdi) con andamenti diversificati. Il calo della componente “socialista” è fortissimo: circa 31 milioni di voti cioè il 33% della sua precedente consistenza. Sia in valore assoluto che in percentuale i partiti socialisti registrano il peggiore ridimensionamento nei paesi meridionali: 14 milioni e 555 mila voti in meno, pari al 46,5%. Solo nei paesi del nord Europa i socialisti crescono di circa 740 mila voti. Il ridimensionamento generale della componente socialista induce a ritenere che si tratti di una crisi strutturale generata dalle forti disillusioni del suo elettorato che va ben oltre i giudizi negativi sul suo operato nei vari governi nazionali. Il fatto che nei paesi del nord non si sia verificata questa tendenza può indurre a ritenere che sia stato determinante il profilo culturale più stabile e chiaro di quei partiti socialisti, legati ad una solida tradizione socialdemocratica e non “massimalista” come, invece, è quella persistente nei paesi meridionali e in alcuni dello stesso centro Europa. Si potrebbe, allora, ipotizzare che una possibile alternativa alla crisi dei “popolari” e dei “socialisti” possa risiedere nelle forze riformiste e progressiste che, alla luce delle attuali tendenze elettorali, mostrano una positiva capacità di attrazione e di fiducia.
Le altre due componenti della sinistra sono in crescita. Quella “estremista” comprende, oltre a varie forze di estrazione comunista o di gruppi di opposizione, anche il Movimento 5 Stelle in quanto nel nuovo Parlamento non si è collocato nello schieramento socialista. Senza il suo apporto di circa 4 milioni e 335 mila voti, la crescita della componente “estremista” sarebbe stata più contenuta (circa 830 mila voti). Comunque, questa componente è particolarmente consistente nei paesi del sud e del centro Europa, dove si è concentrato il ridimensionamento dei partiti socialisti.
Il variegato schieramento politico dei “verdi” continua, infine, ad essere radicato nel centro e nel nord Europa, concentrandosi in circa l’84% dei loro voti complessivi. L’area della destra è cresciuta di circa 36 milioni di voti, con un incremento percentuale del 143%. Si è notevolmente modificato, però, il rapporto tra le sue due componenti interne: i conservatori sono passati dal 62,94% al 42,37, mentre gli estremisti dal 37,07% al 57,63%.
La svolta a destra nei paesi europei si è manifestata con un crescente consenso verso la sua componente estremista. La destra si è espansa soprattutto nei paesi del centro e del nord Europa, dove si concentra circa il 51% del suo intero bacino elettorale; precedentemente tale percentuale era del 35%. In questi paesi, inoltre, la componente estremista raccoglie il 63% dei suoi consensi, a fronte di un precedente 49%. Le dimensioni di questi dati inducono a ritenere che oltre agli effetti della crisi economica siano intervenute altre cause nelle motivazioni elettorali dell’imponente spostamento elettorale a destra. Una di esse, se non l’unica, può essere il mutato atteggiamento verso l’immigrazione, quando, cioè, i tragici e sanguinosi attentati terroristici hanno rotto il clima di convivenza ed accoglienza che aveva accompagnato per decenni l’ingente afflusso di stranieri.
L’estremismo di destra e di sinistra è cresciuto notevolmente rappresentando, con circa 50 milioni di voti, il 19% di tutti i voti espressi; precedentemente ne aveva raccolto circa 19 milioni (7,21%).
La scelta di 50 milioni di cittadini nelle singole elezioni parlamentari verso i partiti estremisti, soprattutto di destra (i riflessi si riscontrano anche in quelle ultime per il Parlamento europeo), non può essere “liquidata” come un’emergenza democratica, esorcizzando le proprie responsabilità ed errori. Infatti, al di là delle fisiologiche propensioni e pregiudizi ideologici “antisistema” di una parte dell’elettorato, l’estremismo, quando non assume connotati violenti, è un segnale di profondo malessere e di sfiducia verso le istituzioni e le forze politiche che le hanno governate. La formazione di “fronti democratici” o di mere e vaste alleanze per fermare le “destre” rischia di alimentare ulteriormente i dissensi se non si risolvano le questioni che li hanno generati. Una sfida impegnativa per i singoli governi nazionali e per gli stessi organismi comunitari, i cui esiti non sono per nulla scontati se non si afferma una politica di riforme, modernizzazione e sviluppo dell’economia europea.
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