Il voto sui quesiti
Perché è importante votare i referendum, il sale della democrazia

In molti si chiedono (almeno quelli che sanno che si voterà un referendum il 12 giugno, perché sono milioni quelli che non ne sanno nulla) se andare a votare e che cosa votare. È una domanda importante; riguarda il ruolo che abbiamo nella democrazia. Sulle pagine di questo giornale (eccezione assoluta insieme a poche altre) si è discusso ampiamente del merito dei quesiti. Molte obiezioni però precedono il merito. Due sono vecchi argomenti, rispolverati all’occorrenza: a) “che li paghiamo a fare i parlamentari, se bisogna scomodare il popolo per decisioni che potrebbero prendere loro?”; b) “perché investire i cittadini su argomenti così complessi?”
I costituenti sul punto avevano le idee chiare. I referendum hanno la funzione di contrastare le scelte o le omissioni del legislatore (quando non affronta un problema su cui ci sarebbe bisogno di cambiare). Per definizione, dunque, si tratta di interventi dei titolari della sovranità proprio perché, a loro modo di vedere, il Parlamento non fa ciò che dovrebbe fare. Sostenere che i referendum non servano perché chi ci governa è pagato per fare quelle cose, significa contraddire la logica dell’istituto. I referendum servono proprio ed esattamente perché i rappresentanti non fanno ciò che dovrebbero fare o non lo fanno nel modo che i cittadini ritengono adeguato. Per questo il referendum esiste. Secondo: proprio perché il referendum significa partecipazione del popolo alle scelte della comunità politica, il presupposto è che, così come accade nelle elezioni, il popolo merita il potere di scegliere.
È la democrazia, bellezza! Dire che un quesito sia troppo complesso (ciò che peraltro è stato detto in mille altre occasioni, smentite poi dai risultati) significa dire che i cittadini non sono all’altezza di assumere certe decisioni. È una visione aristocratica della politica, l’opposto della democrazia. E ogni cittadino che l’abbia orgogliosamente a cuore dovrebbe essere indignato di venire mortificato con tali argomenti. Discorso diverso, e cruciale, è che, come gli stessi parlamentari, i cittadini non sono onniscienti e dunque devono essere messi in condizione di informarsi adeguatamente prima di deliberare. È vero invece, che il referendum non è un’alternativa, ma un completamento, e un aiuto, alla democrazia rappresentativa. I cittadini sono chiamati a dire ciò che non vogliono (abrogando, appunto) rispetto a come un certo problema è stato affrontato. Al Parlamento resta la responsabilità di “ricostruire” sulla base delle indicazioni politiche che vengono dal risultato referendario. Dire che una vittoria dei Sì sarebbe l’ultima parola, di fronte alla quale non ci sarebbe più spazio per costruire, contrasta con l’ispirazione della Costituzione e serve solo a disseminare disinformazione e terrorismo.
Il referendum, dunque, ha due funzioni, che la Costituzione mette nelle mani di ciascun cittadino, analfabeta o premio Nobel che sia. La funzione di opporsi a un assetto concreto della legislazione e di spingere il Parlamento ad occuparsi (meglio) di una questione, percorrendo la strada costruttiva del cambiamento sulla base dell’indicazione politica del voto. Nel caso dei referendum sulla giustizia non cambia nulla. I cittadini non sono chiamati a pronunciarsi su una riforma organica e complessiva della giustizia. Essi sono chiamati a opporsi ad alcuni aspetti, ritenuti fondamentali, del malfunzionamento della giustizia e sono chiamati, allo stesso tempo, a spingere il legislatore a occuparsi meglio di quei problemi sapendo che i cittadini vogliono che, almeno su quei punti, si cambi. Questo vale anche nel momento (come oggi) in cui un’iniziativa riformatrice parlamentare è in corso (la c.d. Riforma Cartabia). La quale però, non bisogna dimenticare, rappresenta uno sforzo meritevole, dopo anni di inerzia del Parlamento, reso possibile dal vincolo esterno costituito dal Pnrr.
Vincolo esterno senza il quale, probabilmente, non sarebbe stata nemmeno calendarizzata, e non certo per negligenza della Ministra stessa. Ma la riforma (senza entrare nel merito se sia o meno sufficiente) è strettamente intrecciata con il referendum. Tant’è che il suo esame è stato sospeso in attesa del risultato del voto di domenica.
Anche perché su quella riforma ci sono state opposizioni fortissime da parte della magistratura associata, che è arrivata a proclamare uno sciopero per contrastarla. Così come, nella magistratura ci sono posizioni di sostegno alle riforme, com’è dimostrato dallo scarso successo di quello sciopero e, ad esempio, dal pronunciamento di una significativa percentuale dei magistrati per l’introduzione del sorteggio come modalità di elezione del Consiglio superiore della magistratura (che la riforma invece non ha adottato).
In questo contesto si colloca il referendum, con le sue due essenziali funzioni. Indicare, con l’abrogazione ciò che non si vuole più, spingere il Parlamento a non recedere dalla volontà di riformare, e riformare profondamente. Il fatto, ad es., che il contenuto di uno dei quesiti (candidature al CSM) sia già stato “incamerato” nel progetto di riforma (motivo per il quale, contraddittoriamente, gli oppositori dicono che è inutile, ma allo stesso tempo invitano a votare NO, quindi contro) è un argomento in più per sostenerlo. Confermerebbe al Parlamento – in vista del dibattito sulla riforma – che è quella la direzione condivisa dai cittadini. Proprio in relazione alla funzione del voto, allora, quello che ciascun elettore si deve domandare è quali sarebbero le conseguenze se il referendum fallisse (o comunque i favorevoli al Sì fossero un’esigua minoranza) o se avesse successo.
Questi esiti sarebbero entrambi equivalenti rispetto alla necessità, riconosciuta da tutti, di imprimere un forte cambiamento per fronteggiare una drammatica crisi della giustizia che rischia, come ha ricordato il Capo dello Stato, di minare in radice la fiducia dei cittadini? Quali sono i rischi di un esito favorevole o contrario al referendum? Per rispondere questa domanda bisogna avere bene in mente le due funzioni del referendum. E interrogarsi per ciascuno di essi: “su questo aspetto esiste un problema grave che andrebbe affrontato? Ciò che il referendum contesta, potrebbe essere disciplinato in un modo migliore?” Perché l’esito positivo del referendum non impedirebbe affatto al legislatore di intervenire, anche il giorno dopo. E questo, anzi gli è richiesto.
Ma gli impedirebbe (questo sì) di intervenire nel modo in cui ha fatto sinora, consentendo inauditi abusi o disfunzioni gravi, per una disciplina che, a tali abusi e disfunzioni, così com’è, si presta troppo facilmente. Se il referendum fosse bocciato, invece, saremmo certi che il legislatore, così come ha fatto sino ad oggi, non avrebbe nessuna spinta politica ad occuparsi del problema e anzi avrebbe titolo per non farlo. Se si vuole esercitare con orgoglio il proprio potere di cittadini su un tema cruciale per la vita comune, com’è la giustizia, sono queste le domande fondamentali che occorre farsi. Distintamente, per ciascuno dei cinque referendum.
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