I 100 anni del leader Pci
Perché Enrico Berlinguer è stato il più importante riformista italiano
Abbiamo pubblicato molti articoli su Berlinguer, in occasione del centesimo anniversario dalla sua nascita. Tutti, secondo me, molto belli e di grande interesse. Eppure io resto convinto che nessuno ancora sia riuscito a fare una vera fotografia politica del leader comunista. Io penso che Berlinguer sia stato, nella storia d’Italia, la figura più importante di politico riformista. Proprio così: la più importante. L’Italia ha avuto tra i protagonisti della sua storia tante figure altissime di riformisti. Penso a Turati, naturalmente, a Matteotti (ucciso dai fascisti esattamente 98 anni fa) a Nenni, a Saragat, e anche ad alcuni democristiani, come Fanfani e Donat Cattin. Berlinguer però è stato il più completo e quello di maggior successo. Anche se non si è mai dichiarato riformista. È l’unico che ha portato a compimento un piano di riforme profondissimo, assai articolato, e che ha cambiato in modo radicale il paese.
Sicuramente dal punto di vista teorico Filippo Turati è il maggior esponente del riformismo. Ed è stato il leader che ha difeso la sua idea in condizioni pazzesche. Bersagliato dall’attacco da sinistra, che veniva da Mosca, e dal Pci nascente, e dai massimalisti di Serrati, e assediato fisicamente dalla destra fascista. Di certo però, se dovessi chiedervi quali sono le riforme immaginate e realizzate da Serrati vi costringere al silenzio. Nenni, Saragat e Fanfani, tutti insieme, furono gli autori delle riforme del primo centrosinistra. Non furono però riforme devastanti, mi pare. Buona la riforma della scuola, che però restava giustamente dentro il solco del gentilismo. Forse sbagliata la nazionalizzazione dell’elettricità. Fallita la riforma del regime dei suoli. Forse la cosa più importante fu il piano casa, che però va interamente attribuito a Fanfani ed è precedente al varo del centrosinistra. L’esperienza del primo centrosinistra fu interessante dal punto di vista riformista, ma di successo modesto e durò poco. Sapete tutti come fu interrotta sul nascere: col tintinnio delle manette che nel 1964 costrinse Moro e Nenni a segnare il passo e a mettere in piedi un governo conservatore e piuttosto immobile. Evitando in questo modo di fare la fine della Grecia, che tre anni dopo cadde in mano ad un gruppo di militari golpisti.
Berlinguer aveva un grande rispetto per le tradizioni del suo partito. Gli piaceva innovare, ma sottotraccia. Non amava i colpi di scena. Forse l’unico colpo di scena che si concesse fu il varo del compromesso storico. Ci torniamo tra pochissimo. Perciò andava cauto anche con le parole. Non diceva: il comunismo è fallito. Diceva: “si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre”. La sostanza era la stessa. Così la parola “riformista” non era nel suo vocabolario. Una volta Alfredo Reichlin – tra tutti i dirigenti del Pci della sua generazione, credo, il più intelligente – gli propose di sdoganare il termine riformista. “Enrico – gli disse – noi siamo il partito delle riforme, perché non lo rivendichiamo?”. Berlinguer lo guardò, sorrise, restò qualche secondo in silenzio, come faceva sempre lui, credo che anche un po’ arrossì, poi scosse appena la testa e rispose: “non posso”. Glielo spiegò bene perché. Certo – disse – che siamo riformisti, ma ammetterlo sarebbe come ammettere una sconfitta. Riformatori, Alfredo, noi siamo solo riformatori.
Oltre ad essere timidissimo, Berlinguer, era anche molto autoironico. Se oggi uno pensa a Berlinguer (ma anche a Craxi, o a Fanfani, o a Cossiga) e poi fa una carrellata, nella sua mente, dei capi politici di oggi, penso che si spaurisca. Berlinguer era saldamente riformista. Perché era convinto che lo svilupparsi di una offensiva di riforme fosse l’unica strada per trasformare l’Italia, attenuare le ingiustizie, ribaltare i rapporti di potere tra le classi e infine avvicinarsi, lentamente, per esperimenti, e in modo molto pragmatico, a una modello futuro e ragionevole di socialismo. La strategia del compromesso storico è esattamente questo: un piano politico, non ideologico, non tattico, non di potere. Un piano di riforme. Berlinguer era socialista e riformista. Aveva del tutto superato il togliattismo. Togliatti considerava la politica l’arte del potere. Perché nonostante tutte le sue saggezze era un rivoluzionario. Berlinguer considerava la politica l’arte del cambiamento. Dico meglio: l’arte delle riforme.
La differenza con gli altri leader riformisti italiani sta nei risultati. Sicuramente Berlinguer non aveva l’altezza intellettuale e teorica di Turati, ma aveva una capacità di spuntarla che nessun altro leader politico ha mai avuto. Le sue battaglie erano di solito vincenti. L’unica che perse la perse dopo essere morto: quella con Craxi contro l’abolizione della scala mobile. Ma non sappiamo come sarebbe andato a finire lo scontro, se Berlinguer fosse rimasto vivo. La sua tendenza riformista gli permetteva di combattere e vincere anche battaglie che non erano sue. Prime tra tutte quella sul divorzio e poi quella sull’aborto. Non era stato lui a volerle, era stato Pannella, ma le sposò e fu lui a portarle in porto. Se non le avesse combattute fino allo stremo (specialmente quella sull’aborto) erano guerre perse. Se diamo un ‘occhiata a cosa era l’Italia , poniamo, nel 1975, e che cosa era diventata alla fine del 1978, ci troviamo di fronte a un salto inaudito. In nessun altro paese d’Europa ci fu una mutazione così rapida. Nella struttura sociale, nei rapporti tra le classi, nella politica e nel costume. Vado a memoria. Cito qualche cambiamento.
Nel 1975 il capo della Confindustria, che era Gianni Agnelli, e il capo della Cgil, che era Luciano Lama, firmarono un patto che sanciva il punto unico della scala mobile. Provo a spiegare. Era un’epoca di inflazione galoppante e la contingenza (regolata appunto dalla cosiddetta scala mobile) era la parte più consistente del salario. Ogni pochi mesi aumentava in proporzione all’aumento del costo della vita. E salvava i salari. La contingenza però era in percentuale. Se scattava del 3 per cento, per esempio, uno stipendio di 200 mila lire al mese aumentava di 6 mila lire al mese, invece uno stipendio di cinque milioni al mese aumentava di 150 mila lire. Le differenze aumentavano. Il punto unico invece unificava gli aumenti. Diciamo 10 mila lire uguali per tutti per ogni punto di contingenza. L’effetto, se proiettato in una quindicina d’anni, sarebbe stato una riduzione fortissima nella forbice delle retribuzioni.
In quegli stessi anni fu approvato il nuovo stato di famiglia, che recepiva il primo femminismo, e con un referendum si stabilizzava il divorzio. Poi il Pci entrò direttamente nella maggioranza e ottenne la riforma Basaglia, cioè – primo paese al mondo – la chiusura dei manicomi considerati struttura autoritaria; poi la riforma sanitaria , primo paese al mondo a garantire la sanità gratuita e qualificata per chiunque; l’equo canone, che considerava come essenziale il diritto alla casa e favoriva clamorosamente chi aveva le case in affitto; la riforma dei patti agrari, che limitava il latifondo e il potere dei proprietari; i nuovi contratti di lavoro che aumentavano i salari, abolivano il cottimo e la gabbie salariali, e addirittura imponevano la scuola gratuita durante l’orario di lavoro, e infine l’aborto e l’università di massa.
L’idea che Berlinguer sia stato uno sconfitto, secondo me, è la più infondata delle idee possibili. Ha vinto decine di battaglie. Tutte quelle riforme furono volute, scritte e imposte dal suo Pci. Il quale si era trascinato dietro una Dc che, soprattutto dopo la morte di Moro, aveva perso una sua guida saldamente conservatrice e considerava il Pci la sua ancora di salvezza. Berlinguer ha vinto anche a dispetto delle condizioni proibitive della lotta politica, in quegli anni, dominata dalla lotta armata. Probabilmente è riuscito persino in una impresa difficilissima: usare la spinta devastante del terrorismo evitando che trascinasse il paese su posizioni reazionarie ma permettendo, al contrario, che diventasse uno stimolo alle riforme. Un giorno dovremo ragionare bene su quegli anni. Penso che scopriremo che le cose andarono in maniera abbastanza diversa da come ce l’hanno raccontata finora.
P.S. Non ho parlato di Craxi. Lo avrete notato. Su di lui c’è da fare un discorso a parte. Fu un grande riformista ma fu sconfitto. Dalla Dc, tornata conservatrice dopo Zaccagnini, e dal colpo di mano della magistratura. Non so cosa sarebbe successo se due giganti come Craxi e Berlinguer invece di combattersi avessero trovato una via comune. Magari, oggi, sapremmo più precisamente cosa si intende per socialismo…
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