Gli unici a ricordare quella macchia del Senato di cinque anni fa, quando con un voto fortemente voluto da Pd e M5S nonché dal presidente Pietro Grasso, fu spedito in galera Antonio Caridi, sono stati due ex colleghi. Riccardo Mazzoni sul Tempo e Carlo Giovanardi su Libero ne hanno memoria perché il caso fu clamoroso, in quanto fu decisa all’improvviso, mentre le Camere stavano per chiudere i battenti per le ferie estive e al Senato era l’ultima seduta, un’inversione dell’ordine del giorno molto voluta dallo stesso Grasso. Tirava aria di manette quel giorno, nel ricordo dei due ex senatori, come se non si potesse andare in vacanza senza la soddisfazione di aver stretto le manette ai polsi di un esponente politico avversario.
Che Antonio Caridi non sia un mafioso ce lo dice oggi anche la magistratura che lo ha assolto, ma lo si poteva, se non sapere almeno intuire anche ieri, come ci raccontano i due ex colleghi che avevano votato contro il suo arresto, insieme al gruppo di Forza Italia. Lo poteva intuire, annusando un po’ meglio le carte in cerca del famoso “fumus persecutionis” per esempio il capogruppo del Pd Andrea Marcucci, da sempre legato al suo leader Matteo Renzi, che allora era il presidente del consiglio, e che non batté ciglio nel vedere il Senato privato di un suo componente per mano non degli elettori ma di un pubblico ministero.
Chissà se Renzi è in grado, almeno oggi con qualche nervo scoperto in più, di valutare con precisione il peso e il senso di quella ferita inferta dal suo gruppo a una persona e allo Stato di diritto in quel 4 agosto del 2016. L’inchiesta denominata “Gotha” era un insieme probabilmente arbitrario di quattro o cinque diverse inchieste congiunte da una sorta di copia e incolla dal procuratore capo di Reggio Calabria Cafiero De Raho. Un po’ quello che oggi è lo stile Gratteri, insomma: mescoli insieme un po’ di criminali, un po’ di veri o falsi mafiosi e condisci con qualche nome di politico o amministratore locale, ai quali contesti il solo reato associativo. Poi fai una conferenza stampa e annunci la sconfitta di una famosa cosca mafiosa. Che importa se il famoso politico, indicato nella richiesta di arresto come uno dei capi della ‘ndrangheta, e al quale sono stati fatti scontare 20 mesi di carcere preventivo sarà assolto cinque anni dopo?
Intanto hai ottenuto che un Senato presieduto da un ex procuratore nazionale “antimafia” ti abbia consentito di arrestarlo. Alla faccia di quel brandello di immunità rimasta dopo la sciagurata controriforma dell’articolo 68 della Costituzione votata da un Parlamento annientato dalle inchieste di tangentopoli nel 1993. In ogni caso, quando arriva una richiesta di custodia cautelare quasi nessuno ha la curiosità di sfogliare le carte dell’inchiesta, e soprattutto pochi capiscono che il famoso “fumus persecutionis”, cioè il sospetto che la richiesta di carcerazione sia infondata, non si riferisce al contenuto dell’inchiesta, ma ai presupposti degli articoli 274 e 275 del codice di procedura sul pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Se qualcuno ci ragionasse un po’, capirebbe che usare le denunce, i processi e il carcere contro gli avversari politici quanto meno prima o poi ti si ritorce contro.
Sarebbe ora che quelli come Matteo Renzi prendessero atto una volta per tutte che non è il sole a girare intorno alla terra. E ponessero fine al totalitarismo giudiziario rivendicando con onore l’autonomia della politica.
Matteo Renzi è convinto di essere un garantista. Pensiamo sia sincero. Ma ogni tanto crede ancora che il sole giri intorno alla terra. E non sappiamo se qualche nome di esponenti politici messi alla gogna, anche con la sua complicità, negli anni in cui lui era segretario del Pd o presidente del consiglio, lo fa un po’ arrossire. O gli fa venir voglia magari di un piccolo gesto come quello di Luigi Di Maio nei confronti di Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi da lui e dal suo partito esposto alla gogna dopo l’arresto e poi assolto. Facciamo qualche nome: Gianni Alemanno, Roberto Bertolaso, Roberto Cota (irriso per le inesistenti mutande verdi nel giorno dell’assoluzione), Filippo Penati (cancellato dall’elenco degli iscritti), Ignazio Marino, eccetera. E vogliamo parlare di “Lupi e i suoi fratelli”, cioè dei ministri accompagnati alle dimissioni? Sarebbe bastata una parola di solidarietà nei confronti di Nunzia De Girolamo, per esempio. A proposito, le hai mai chiesto scusa, almeno dopo l’assoluzione? Pugno di ferro in guanto di velluto, invece, pur passati i tempi in cui il Pds scaraventò fuori dal ministero il guardasigilli Filippo Mancuso con una sfiducia individuale perché aveva osato mandare gli ispettori agli eroi milanesi di Mani Pulite.
C’è tutto un mondo dell’immoralità, quella vera, quella di chi fa le liste di proscrizione, quella di chi parla di indagati come se dicesse appestati. Quella di chi usa lo strumento giudiziario e la denuncia quando perde le elezioni, come fece il Pd a Parma dopo l’elezione di Federico Pizzarotti e a Milano contro la sindaca Letizia Moratti e a Roma contro Virginia Raggi. Un Pd più immorale dello stesso Movimento cinque stelle, che naviga inconsapevole del proprio nulla. Quello del “sono garantista però”, “lasciamo che la giustizia faccia il suo corso”, “premesso che sono per l’autonomia della magistratura”.
Ora basta con le premesse e i però. Non sappiamo se, almeno privatamente, Matteo Renzi abbia mai chiesto scusa a Silvio Berlusconi per quel “game over” pronunciato mentre lo faceva cacciare dal Senato. Ma il caso di Antonio Caridi potrebbe essere una buona occasione per cominciare a far girare la terra intorno al sole. Lasci che il nipotino Letta si trastulli con i suoi amici tagliagole dei cinque stelle, e inizi un percorso diverso, quello che una volta Luigi Manconi, che aveva preso le distanze dal suo gruppo e aveva votato contro l’arresto del collega quel 4 agosto del 2016, aveva definito, nel contesto dl Pd, come quello degli “smarriti apolidi”. Vedrà che non sarà così solo.