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Il nodo è il debito
Perché alla Germania in crisi non piace il piano di Draghi: la lezione su come “fare industria” da un italiano e lo smacco morale
Sono tante le ragioni per cui alla Germania non piace il Piano Draghi. Prima però di entrarvi in dettaglio – e magari accorgerci che siano poco ricevibili – è utile soffermarsi su questo malato d’Europa, la cui crisi sta compromettendo l’intera industria del continente. In particolare la nostra. Secondo i dati diffusi dall’ufficio statistico federale tedesco, Destatis, la Germania ha chiuso il 2023 con un calo dell’1,5% per la produzione industriale.
La crisi della Germania
Nel 2024 non c’è stato un miglioramento. Anzi. A luglio, la flessione è stata del 2,4% sul mese precedente e del 5,3% su base annua. Auto in panne, infrastrutture antiquate e Pmi locali che non riescono a stare al passo con la transizione digitale. Le debolezze tedesche gravano sulle imprese di mezza Europa. Come si diceva, appunto, la Germania è il nostro principale partner manifatturiero. Appena ieri, Federmeccanica segnalava che le esportazioni metalmeccaniche e meccatroniche italiane verso il mercato tedesco sono crollate dell’11,1% rispetto ai primi sei mesi del 2023. Oltre il 58% delle esportazioni verso quel mercato è composto da prodotti intermedi, impiegati dalle aziende tedesche, che se non producono non hanno bisogno di noi. È innegabile che tutto questo – aggravato dai problemi di alloggi, trasporti, istruzione e sistema sanitario – stia alimentando gli estremismi politici e impennando vertiginosamente l’insicurezza tra la popolazione.
Perché alla Germania in crisi non piace il piano di Draghi
Ora, parlare di “Stato fallito” come faceva il Financial Times sabato scorso è eccessivo, ma una cura ci vuole. E allora perché il Piano Draghi alla Germania non piace? Può essere che sia per una questione di orgoglio nazionale. L’idea di ricevere una lezione su come “fare industria” a chi l’industria, almeno nell’Europa continentale, l’ha praticamente inventata, deve suonare come uno smacco morale oltreché storico. Va aggiunto che a tenerla questa lezione è un italiano. Può essere che ci sia un pregiudizio? Il sospetto viene mettendo in fila il Nein a Draghi e la contrarietà che, sempre in questi giorni, Berlino ha espresso in merito alla fusione Unicredit-Commerzbank. Vedere il Tricolore sventolare sulla torre della quarta banca della Germania ha mobilitato Deutsche Bank, che sta pensando di mettersi di traverso all’operazione, ma soprattutto ha portato i sindacati dello istituto di Francoforte a dire: «Meglio i francesi!». Su questo è curioso che il nostro governo – con il suo radicato orgoglio patrio – non abbia ancora alzato il ditino per chiedere spiegazioni. Ma non andiamo fuori tema.
Il nodo del debito
Il Piano Draghi a Berlino non piace anche perché è impostato sul debito. E per una Bundesbank ultra rigorista, che non ha mai dimenticato (giustamente) la lezione dell’inflazione della Repubblica di Weimar, l’eventualità di scialacquare soldi pubblici proprio non va giù. Su questo sono stati chiari il ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, e il leader della Cdu, Friedrich Merz. Infine c’è Scholz, che non si sa se abbia più paura di una Linke o un’Afd che potrebbero accusarlo di favorire l’ingerenza della Ue nell’economia nazionale, o ancor più soffra l’ansia di prestazione verso Frau Merkel, che chissà come avrebbe reagito alle indicazioni di Supermario. D’altra parte, quanto sta scritto nel report è quel che ci vuole a Berlino. Come a tutti noi. Stagnazione della produttività, innovazione digitale in ritardo, invecchiamento della popolazione, riduzione della forza lavoro.
I mali tedeschi sono gli stessi di tutta Europa. Come pure la doppia sfida delle transizioni digitale e green. Non è un caso che la Bundesverband der Deutschen Industrie (Bdi), la Confindustria tedesca, abbia scelto proprio questi giorni per avvertire la sua orgogliosa classe politica che il 20% del valore industriale tedesco è a rischio, in particolare nei settori come quello automobilistico, chimico e nelle industrie ad alta intensità energetica e che, di conseguenza, serve investire 1,4 trilioni di euro, entro il 2030, per rafforzare la propria base industriale e rimanere competitiva nel mercato globale. “Il rapporto offre un’argomentazione convincente per una politica industriale”, scriveva sul Financial times Daniela Schwarzer, del Bertelsmann Stiftung, fondazione che, da quasi mezzo secolo, si dedica alla promozione di riforme e innovazioni tradotte poi in raccomandazioni a sostegno del sistema decisionale del paese. Insomma, alla Germania il piano Draghi non piace. E, stando a quanto detto – non da noi, ma dalla ben più autorevole industria tedesca – le motivazioni non hanno alcuna ragion d’essere.
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