La fretta, si dice, è cattiva consigliera. Ciò è tanto più vero quando si tratta di introdurre nuove fattispecie di reato e, in particolare, quando complessi e delicati siano i profili di collisione tra esse e l’esercizio di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Così, può accadere – come è accaduto – che una norma nata con l’intenzione di contrastare i cosiddetti rave party finisca per mettere a rischio, e seriamente, la libertà di riunione garantita dall’articolo 17 della Costituzione.
Il neonato reato di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” punisce con la reclusione da tre a sei anni (e con la multa da mille a diecimila euro) l’invasione “arbitraria” di terreni o edifici pubblici o privati allo scopo di organizzare un raduno, commessa da più di cinquanta persone, quando dalla stessa possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Molte sono le ragioni che inducono a sospettare della coerenza di questa previsione con il dettato costituzionale. A margine, e preliminarmente, è lecito dubitare della sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza che giustificano il ricorso al decreto legge e, dunque, del rispetto dell’articolo 77 della Costituzione. In secondo luogo, colpisce l’indeterminatezza della fattispecie e, dunque, il dubbio rispetto del principio di tassatività della legge penale, desumibile dall’articolo 25 della Costituzione.
In terzo luogo, la quantificazione della pena evoca – assieme al limite quantitativo di cinquanta partecipanti – profili di irragionevolezza intrinseca e dunque di violazione dell’articolo 3 della Costituzione. Con riferimento alla pena, il nuovo art. 434-bis commina, come detto, la detenzione da tre a sei anni: si pensi soltanto che l’articolo 633 del codice penale – che punisce l’invasione di terreni o edifici pubblici o privati al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, con previsione peraltro tranquillamente applicabile al rave di Modena e a fatti simili, con buona pace di ogni considerazione sull’effettiva necessità dell’intervento normativo – commina la pena della detenzione da uno a tre anni. Fattispecie simili sono dunque punite in modo molto diverso, senza una ragionevole giustificazione.
Ciò che desta maggiore preoccupazione è, però, il profilo di contrasto con l’articolo 17 della Costituzione. Per come è formulata, infatti, la norma rischia di essere applicata a ipotesi di assembramento spontaneo che nulla hanno a che vedere con i cosiddetti rave party e che, comunque, rientrano nell’ambito della libertà di riunione costituzionalmente garantita. L’articolo 17 della Costituzione si caratterizza per un marcato favore verso la riunione ponendo come unici limiti quello – comune a tutte le tipologie di riunione – del carattere pacifico e non armato delle riunioni e quello – specifico per le sole riunioni in luogo pubblico – del preavviso. Preavviso e non autorizzazione come invece si tende a dire talora, e sbrigativamente, nel dibattito pubblico: “mero ausilio privato dell’attività di osservazione della polizia”, insegnava Ridola già negli anni Settanta.
Lo schema è, in altri termini, quello di una collaborazione tra organizzatori e autorità di pubblica sicurezza con il solo fine di garantire il pacifico e ordinato svolgimento della riunione. Non altro. Da ciò consegue che la riunione non preavvisata non può per ciò solo essere sciolta, e che le conseguenze del mancato preavviso gravano solo sugli organizzatori della riunione medesima. Allo stesso tempo, le riunioni in luogo pubblico possono essere vietate (o sciolte) solo per “comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”, ferma restando – su di un piano diverso e autonomo – la perseguibilità dei reati eventualmente commessi nel corso della riunione medesima. La norma introdotta dal governo, dunque, aggrava la disciplina degli assembramenti spontanei rispetto al quadro costituzionale e incide in particolare sulle forme che la riunione in luogo pubblico può assumere quando – per i motivi più svariati – non sia possibile darne preavviso. Si dirà che la norma vuole proteggere la proprietà, privata o pubblica: ma si dimentica che, come ricordato, l’invasione a scopo di occupazione è già punita da autonoma fattispecie penale.
Qui c’è, indubbiamente, qualcosa di più: ne sono spia tanto il riferimento alla finalità del “raduno” quanto il riferimento – davvero cruciale – alla mera possibilità che dall’invasione derivi un pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Due profili colpiscono, in particolare: in primo luogo la menzione, tra le ragioni di pericolo che qualificano l’assembramento come reato, dell’ordine pubblico e della salute pubblica, concetti del tutto assenti dall’articolo 17 della Costituzione. In secondo luogo, la previsione di una valutazione anticipata e a priori sul potenziale pericolo. Essa non solo pone in capo all’autorità di pubblica sicurezza un elevatissimo margine di discrezionalità ma, soprattutto, si pone agli antipodi rispetto ai “comprovati motivi” di sicurezza e incolumità pubblica che – soli – legittimano il divieto o lo scioglimento di una riunione secondo la Costituzione: comprovati, vale a dire attuali, concreti e motivabili, possibilmente nel contraddittorio con gli organizzatori. Uno schema dialogico e collaborativo che, peraltro, è stato attuato anche a Modena, ottenendo la fine pacifica e concordata del rave (sempre a conferma della non necessità dell’intervento normativo).
A ciò si aggiungano le conseguenze specifiche della quantificazione della pena sul piano della possibilità di ricorrere a intercettazioni e, soprattutto, di applicare la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e le altre misure di prevenzione previste dall’articolo 6 del Codice delle leggi antimafia. Come si vede, dunque, i profili di interferenza con l’articolo 17 sono molteplici e preoccupanti, specie per i raduni in luogo pubblico. In particolare, è oltrepassato e sfuma il confine tra limiti alla libertà di riunione derivanti da esigenze di sicurezza o di incolumità pubblica prefigurati dalla Costituzione e necessità di perseguire i reati eventualmente connessi allo svolgimento del raduno, che – come detto – si pone su un piano autonomo e diverso.
La libertà di riunione è essenziale per il buon funzionamento della democrazia e, a monte, di uno spazio pubblico aperto alle relazioni, alla comprensione reciproca, che prenda sul serio la compresenza e la convivenza tra diverse soggettività, diverse esperienze, diverse rivendicazioni. La riunione è anzitutto, infatti, una questione di corpi: un’alleanza di corpi, per dirla con Butler e Zappino. Corpi che, con la loro presenza, si fanno portatori di istanze politiche, e non soltanto. Corpi che esistono e, spesso, resistono al potere attraverso la pratica delle relazioni e l’occupazione di spazio comune e politico. Nella libertà di riunione coesistono, allora, una dimensione individuale, una dimensione relazionale e una dimensione intimamente politica, tutte e tre da preservare. Anche per questo, la riunione è spesso guardata con sospetto dal potere, in quanto luogo di elaborazione politica e snodo di possibili pratiche di resistenza. E per questo, con preoccupazione deve essere letto il nuovo articolo 434 bis del codice penale.