L’inferno dietro le sbarre
Perché invocare più carcere non serve: i rimedi sono altri, il caso del detenuto di Aversa

Dal carcere di Aversa arriva la notizia di un’aggressione, da parte di un detenuto, nei confronti di un medico e di agente della polizia penitenziaria. Il detenuto ha lanciato una sedia contro il medico e un estintore contro l’agente ferendo, per fortuna in maniera non grave, entrambi. La notizia è stata diffusa con un comunicato dall’Uspp, Unione sindacati della polizia penitenziaria. Colpisce che la notizia di questo episodio di violenza, che come tale è sicuramente un fatto allarmante, sia stata abbinata alla richiesta di misure più giustizialiste: «Niente benefici di legge», si legge nel comunicato diffuso ieri.
Ma come? Di fronte a una realtà penitenziaria che è oggettivamente al collasso, di fronte a un numero di suicidi e di atti di autolesionismo in cella impressionante, di fronte a drammi continui e a mortificazioni dei più elementari diritti si chiede di inasprire misure che si sono in gran parte già rivelate fallimentari? Sorprende che una simile richiesta arrivi proprio dagli agenti della polizia penitenziaria, i quali vivono anch’essi l’inferno del mondo dietro le sbarre perché di fatto lavorano negli stessi ambienti malsani e spesso inumani in cui sono reclusi i detenuti. Finora il carcere della privazione, il carcere della reclusione fine a sé stessa, il carcere del giustizialismo e del “buttiamo la chiave” ha prodotto soprattutto violenza, recidive nella commissione di reati, drammi umani. Ha davvero senso, alla luce di tali dati, proseguire su questa strada? Non sarebbe il momento di invertire la tendenza e rendere il carcere più umano, offrire ai detenuti (tutti) un percorso di reinserimento e di responsabilizzazione, fare più ampio ricorso alle misure alternative ed evitare che in cella ci finiscano persone con problemi di salute o di salute mentale?
Nel comunicato del sindacato Uspp si legge: «Quanto accaduto (il riferimento è all’aggressione nel carcere di Aversa, ndr) dimostra l’urgenza dell’inasprimento delle pene per i reati di aggressione al personale di polizia penitenziaria. Chiediamo al Governo che tra poco si insedierà una legge che annulli i benefici di legge per i detenuti che si rendono protagonisti di aggressioni ai colleghi». Ma una legge già c’è, già ci sono misure disciplinari o penali per chi si rende autore di aggressioni, atti di violenza, violazjoni varie. Che senso ha invocare una legge per una legge che già esiste? Ah saperlo. «Non servono leggi speciali per casi speciali – commenta il garante regionale Samuele Ciambriello –, serve piuttosto progettualità». E qualcosa in tal senso si sta facendo proprio in relazione al carcere di Aversa, che fino al 2016 era ospedale psichiatrico giudiziario ed è stato poi riconvertito in casa di reclusione con tutte le criticità tipiche di molti istituti di pena campani tra sovraffollamento e carenza di personale sanitario ed educativo.
Il primo ottobre, infatti, saranno istituite borse lavoro per trenta detenuti della casa di reclusione affinché vengano impegnati in lavori all’interno dell’istituto di pena stesso o in corsi di formazione. Già da alcuni mesi, inoltre, otto detenuti, scelti tra quelli reclusi nella sezione casa lavoro di Aversa in quanto ritenuti socialmente pericolosi pur avendo terminato di scontare la pena, lavorano, per alcune del giorno, nella tenuta agricola e nella mensa della Caritas, mentre altri cinque detenuti sono impiegati in un lavoro di catalogazione dei dati scritti a penna relativi ai malati di mente passati per l’ex Opg. Non vi sembra questo un modo più umano, oltre che più fedele al dettato costituzionale, con cui lo Stato può occuparsi dei detenuti?
© Riproduzione riservata