Le dimissioni della premier
Perché Jacinda Ardern si è dimessa da premier della Nuova Zelanda
“Non correrò per le prossime elezioni – ha dichiarato la premier neozelandese Jacinda Ardern – e il mio mandato da premier terminerà entro il 7 febbraio. Gli ultimi cinque anni e mezzo sono stati quelli più ricchi di soddisfazioni della mia vita, ma ho dovuto affrontare molte sfide. So cosa richiede questo ruolo e so di non aver più le energie sufficienti per ricoprirlo al meglio. È semplice”. In realtà, come essa stessa prevedeva, sarebbero sorte “molte discussioni”, interrogativi e illazioni, intorno alla sua scelta, perché tocca un problema tutt’altro che semplice, quale è il rapporto tra le donne e lo Stato, la politica, i suoi poteri, le sue istituzioni, anche se è l’aspetto che meno viene posto in evidenza. L’accenno al peso delle responsabilità e “sfide” da affrontare e alla mancanza di “energie sufficienti” per farlo, rassicura senza dubbio chi vorrebbe interpretare il caso come una questione personale, cioè sostanzialmente “privata”. Ma Jacinda Ardern ha aggiunto – per dare una ragione comprensibile – “sono un essere umano”, e perciò con dei limiti, delle priorità.
Ci si potrebbe anche accontentare, se all’essere umano, indipendentemente dal sesso di appartenenza, fosse toccata storicamente la stessa sorte, se le donne non fossero state escluse per millenni dal “ruolo privilegiato” di governare il mondo, e se ancora oggi, nonostante le maggiori consapevolezze acquisite sul domino maschile e la cultura patriarcale che lo sostiene, la loro cittadinanza non risultasse “incompleta”, carica di contraddizioni, ambiguità e ostacoli. Non c’è da meravigliarsi se a portare al centro un problema cruciale , quale è il rapporto tra il corpo, la sessualità e la politica, è una donna che non ha negato la sua identità di genere, che si è preoccupata della disuguaglianza sociale, che ha fatto leggi restrittive sull’uso delle armi, che è stata presidente dell’Unione Internazionale della Gioventù Socialista. Come ci si può integrare nei ruoli apicali di un “sistema” tuttora fondato sulla visione maschile del mondo, la stessa che ha confinato le donne in ruoli considerati “naturali” di mogli e madri, custodi della riproduzione della specie e della famiglia, come recita ancora l’articolo 37 della nostra Costituzione, senza assimilarsi ai modelli maschili, sposare linguaggi e ideologie di società, di potere e di governo, conservatrici dell’ordine dato?
La donna che può far propria la definizione al maschile della sua professione, senza neppure più fingere che si tratti dell’uso neutro che se ne è fatto finora, non pone interrogativi agli uomini, perché evidentemente non li pone neppure e se stessa. Scriveva già all’inizio del Novecento Sibilla Aleramo: “La donna ha studiato, ha lavorato, ma cercando di imitare e di emulare l’uomo, anziché scoprire in se stessa originali elementi di genialità (…) Finora l’uomo ha creato, la donna no…La donna si è contentata di questa rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile. E tutto ciò che parallelamente intuiva, nulla o quasi nulla, ha mai detto agli altri, perché purtroppo nulla o quasi nulla ha mai detto a se stessa”. Il rapporto delle donne con la legge, con le istituzioni della vita pubblica, ha attraversato tutto il lungo percorso del movimento delle donne fino ad oggi, ma è nelle teorie e pratiche anomale femminismo degli anni Settanta che ha conosciuto le sue risposte più originali e radicali.
Il primo atto “rivoluzionario” di una generazione di donne che comparivano per la prima volta sulla scena pubblica come “soggetti imprevisti” (Carla Lonzi) è stata la messa in discussione della separazione tra “il corpo e la polis”, atto di nascita della politica così come l’avevamo conosciuta fino allora, ma anche origine del diverso destino dei sessi. Era l’uscita da ogni dualismo – maschile/femminile, biologia/storia, sentimenti/ragione, individuo/società, ecc. -, dalle gerarchie di potere su cui si sono costruiti, e quindi anche ricerca di “nessi” tra un polo e l’altro, che ci sono sempre stati. Si modificava il confine che separa il “cittadino” e la “persona”, il corpo, le differenze di genere che la storia vi ha costruito sopra, e le istituzioni. Lo slogan “il personale è politico” intendeva sottrarre al privato e alla naturalizzazione che hanno subito, esperienze universali dell’umano, come la sessualità, la maternità, la nascita, le relazioni familiari, tesori di cultura da esplorare, portare allo scoperto, restituire alla storia, là dove sono sempre stati. Come riconobbe Rossana Rossanda, il femminismo si poteva considerare il “sintomo” della crisi della politica e l’ “embrione” di una sua ridefinizione.
Nel momento in cui si ribaltava scandalosamente il rapporto tra vita e cultura, e veniva riscoperta la politicità di tutto ciò che era stato considerato fino allora “non politico”, non poteva non cambiare di conseguenza anche il rapporto con lo Stato, la legge – parole come libertà, uguaglianza, partito, rivoluzione, ecc. -, con un sistema economico, sociale di regole e norme nate dalla stessa ideologia che ha voluto la donna un genere di “natura inferiore”, identificata col corpo e assegnata per ciò stesso alla cura dei corpi. A proposito delle dimissioni della premier neozelandese, si è parlato della scelta della “cura di sé”, che, nel suo caso, è difficile separare da un impegno di governo portato avanti per anni. Ma, soprattutto, perché questo riferimento viene immediato quando si tratta di una donna, che non esita a nominare il suo desiderio di essere vicina a una figlia in età scolare, di fare un matrimonio che ha dovuto necessariamente rimandare, e non compare quando è un uomo a lasciare il suo incarico? Perché non dire che registrare limiti, stanchezza, energie inadeguate, non deriva dal proprio essere “umani”, ma dall’essere donna dentro un assetto del mondo che porta il segno di chi lo ha governato finora, da una integrazione che, non interrogando l’ordine dato, significa per il genere escluso doppio lavoro, in casa e fuori? La diffidenza del femminismo, in tutte le forme che ha preso dagli anni Settanta in avanti, nei confronti delle istituzioni e dello Stato è più che giustificata.
Chi seppe riconoscerlo con grande lucidità fu Rossana Rossanda, una donna che diceva di essere stata “invasa dalla politica”, nelle conversazioni radiofoniche con le femministe della nuova generazione. Riguardo alla parola “Stato”, commentava: “È la parola più impervia, perché lo Stato è la forma più complessa della politica, e quella che la donna vive con la maggiore distanza storica. Stato è la politica che diventa legge (…) È sempre in qualche modo legge e potere, due anime dello stato che appaiono separate dalla vita immediata del singolo, fissate sopra di lui (…) cosa succede quando riflettiamo sullo Stato dal punto di vista delle donne? Succede che le donne, storicamente escluse dalla politica e quindi in modo particolare dallo stato, oggi rifiutino l’offerta, che in qualche modo viene fatta loro, di spartire il potere dello Stato (…) La sfera pubblica, insomma, riflette la visione che il maschio ha della femmina. Storicamente la politica è stata “maschile”, possiamo pensare che si tratti solo di un ritardo, che oggi si può colmare, o dobbiamo pensare che il modo con cui si sono costruite le categorie della politica non consente di accogliere né quel che le donne realmente portano, né quello che sono state storicamente determinate a essere? Insomma, le categorie della politica devono cambiare per cogliere la dimensione specifica della coscienza femminile?”
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