Le elezioni dei presidenti e il futuro del governo
Perché la maggioranza traballa: quali sono i rischi per il governo e la legislatura
Con l’elezione di Ignazio La Russa a presidente del Senato e di Lorenzo Fontana a presidente della Camera si è composto quel “triangolo” che è posto al vertice delle nostre istituzioni. Qualunque giudizio sulle persone destinate a ricoprire rispettivamente la “seconda” e la “terza” carica dello Stato sarebbe inevitabilmente prematuro, non solo perché ciò che conta non è da dove si viene ma dove si vuole andare ma anche per la forza costringente dell’“abito” istituzionale che d’ora in poi i due esponenti politici dovranno “indossare”.
Anzi, da questo punto di vista, si è compiuto un piccolo ma significativo passo in avanti in termini di esperienza parlamentare, dato che gli attuali Presidenti, rispetto ai loro predecessori delle due trascorse legislature, hanno presieduto – seppur da vicepresidenti – le rispettive assemblee (e La Russa anche alla Camera tra il 1994 ed il 1996) nella passata legislatura (Fontana invero per appena due mesi dal 29 marzo al 1° giugno 2018). Un’esperienza che potrà certamente tornare utile non solo nella direzione quotidiana dei lavori parlamentari ma anche nell’affrontare le sfide che la crisi delle assemblee parlamentari dovranno affrontare, a cominciare dall’improcrastinabile revisione del regolamento della Camera dei deputati dopo la riduzione del numero dei componenti che rende diversi quorum, a cominciare da quello per la costituzione dei gruppi parlamentari, irraggiungibili per le minoranze (a proposito di tale riduzione: quanta tristezza infondono queste nuove aule parlamentari che sembrano semi-vuote quando in realtà è presente la quasi totalità dei loro membri…).
Un cenno incidentale a tali sfide ha fatto il presidente della Camera quando, pur con l’enfasi e la retorica di circostanza, ha sottolineato l’importanza del ruolo del Presidente nel garantire il processo dialettico tra maggioranza ed opposizione che deve essere alla base delle decisioni pubbliche; esse, infatti, sono tanto migliori se frutto del loro contributo, nel rispetto dei rispettivi ruoli e delle regole di ingaggio parlamentare. Come nel discorso del suo predecessore, non è mancata una stoccata contro l’abuso dei poteri normativi del Governo quando il neo Presidente ha auspicato una «netta inversione di tendenza del rapporto tra il potere normativo del governo e quello parlamentare perché quest’ultimo è quello che più di tutti garantisce con il suo processo formativo che vede la partecipazione di una pluralità di soggetti istituzionali una giusta mediazione sulle decisioni assunte».
Vedremo se alla prima questione di fiducia posta sul maxi-emendamento in sede di conversione dei decreti legge il presidente Fontana (al pari di quello del Senato) troveranno il coraggio istituzionale di dichiararlo inammissibile per violazione del “giusto procedimento legislativo” sancito dall’art. 72 Cost. oppure se, al pari dei loro predecessori, accetteranno in nome delle esigenze della maggioranza di cui fanno parte quella prassi che nella passata legislatura avevano aspramente criticato dall’opposizione. In attesa di simili prove, si può comunque dire che, come previsto, dalle elezioni dei due nuovi Presidenti sono emerse preziose indicazioni sui rapporti all’interno della maggioranza di destra-centro e tra quest’ultima e le opposizioni. Va infatti evidenziato come le maggioranze ottenute dai due Presidenti siano state percentualmente inferiori all’ampio consenso (il 75% dei voti per la Casellati, il 68% per Fico) ottenuto dai loro predecessori, frutto allora di un accordo tra il M5s e la coalizione di centro destra: Fontana, infatti, ha ottenuto 222 voti sui 235 della coalizione di riferimento (pari al 55,5% dei componenti), La Russa 116 su 206 (56,3%).
Siamo dunque tornati alle percentuali tipiche della Seconda Repubblica quando, forti del successo elettorale, i presidenti delle Assemblee venivano eletti con i soli voti della maggioranza uscita vincente dalle elezioni. Ed è significativo che, come fu per Schifani nel 2008, il partito di maggioranza relativa abbia subito rivendicato per sé la Presidenza non della Camera ma del Senato (in attesa della Presidenza del Consiglio…), quasi a voler puntellare con un proprio esponente una carica che nella storia repubblicana ha sempre rivestito una certa importanza, vuoi ovviamente per il prestigio della carica, vuoi, sotto il profilo politico, per la sua intrinseca stabilità e irresponsabilità politica a fronte della invece, forse altrettanto intrinseca, instabilità delle cariche governative.
A proposito di instabilità, non si può infine non notare come al primo banco di prova, complice il voto segreto, la coalizione di centro destra abbia mostrato le prime incrinature, con addirittura l’elezione di un suo esponente grazie al decisivo apporto di voti (ancora non identificati ma forse in futuro identificabili) delle minoranze. Non è certo un buon viatico per il futuro esecutivo e, più in generale, per una legislatura che corre il rischio sin da subito di palesare i vecchi difetti del nostro sistema parlamentare.
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