Le motivazioni della condanna
Perché Mimmo Lucano è stato condannato, la sete di carriera di giudici contro un innocente
Un politico appassionato, certo, e anche “geniale e illuminato”. Eppure, non basta per i giudici del Tribunale di Locri che hanno condannato a 13 anni e 2 mesi (e 500mila euro da restituire all’Unione europea e al Governo) Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, per il sistema di accoglienza dei migranti messo in piedi nel piccolo comune calabrese. Perché, spiegano i magistrati, quel dipinto di “Mimì” appartiene al passato e ai primi passi di un progetto che ha fatto il giro del mondo anche con merito.
Nelle motivazioni del processo “Xenia” che a fine settembre ha portato a 17 condanne e 8 assoluzioni, il collegio non va per il sottile e bolla Lucano ed i suoi come «sempre più asserviti ai loro appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica, e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti che, da obiettivo primario e apprezzabile di quelle sovvenzioni, è diventato un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali». E guai a nominare la persecuzione politica, trama caldeggiata dalla difesa (gli avvocati Giuliano Pisapia insieme a Andrea Daqua) e dai suoi sostenitori: «Non c’è traccia di fantomatici “reati di umanità” che sono stati in più occasioni evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione dei migranti, ma solo a trarre profitto, nelle diverse forme e che non hanno alcuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante».
Sono oltre 900 le pagine di cui i tre magistrati hanno bisogno per spiegare il “sistema Riace” confluito nel processo tratto da un’indagine che ha scavato su presunte irregolarità nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel Comune riacese, ma anche su rifiuti, rilascio di carte di identità e altro. A Lucano sono costate le accuse di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È arrestato il 2 ottobre 2018 e messo agli arresti domiciliari, sospeso il giorno dopo dalla carica di sindaco: dopo la misura viene trasformata in divieto di dimora dal Riesame, per poi essere annullata dalla Cassazione. E se la Procura di Locri voleva la condanna per l’ex sindaco a 7 anni e 11 mesi, quando il giudice Fulvio Accurso legge la sentenza lascia tutti a bocca aperta per il quantum: 13 anni e 2 mesi, quasi il doppio rispetto a quanto richiesto dai pm.
Nella sentenza I giudici ripetono più volte i principi avrebbero governato le stanze della politica di Riace, e in particolare l’agenda di Lucano: la sete di denaro, il profitto, la prosecuzione della sua carriera. Tanto da «trasformare la sua autentica passione in un manifesto di pura facciata, dietro cui si celava il demone ossessivo da cui egli era divorato, costituito dalla ricerca costante di una sempre maggiore visibilità, da attuare ad ogni costo, tanto da non essere più riconosciuto neppure dalle persone che gli stavano accanto come la sua compagna». Un profilo umano, sociale e psicologico che i giudici di Locri tratteggiano ripetutamente nelle motivazioni. Ripercorrendo il percorso processuale, il collegio “bacchetta” anche la scelta di non sottoporsi all’esame dibattimentale «impedendo al Collegio di poter ottenere dalla sua viva voce i numerosi chiarimenti che sarebbe stato opportuno ricevere su numerosissime questioni».
Al di là dei racconti di segno umano e personale che hanno mosso Lucano nei primi anni della sua carriera politica nel 1998 e che i giudici riconoscono, serviva qualcosa in più: «Non ha spiegato nulla della falsificazione dei rendiconti di cui egli stesso, assieme ad altri, si è reso indiscusso protagonista, grazie alle quali ha distratto denaro pubblico, in misura assai rilevante, per acquistare per fini di privato interesse, anche a lui riferibili, tre case destinate al turismo dell’accoglienza ed un frantoio, per rimodernare altri immobili con ricche finiture, sempre da destinare ai predetti fini turistici estivi (che servivano ad esaltare la sua immagine di politico». Queste le contestazioni, i fatti, i reati per cui il Tribunale di Locri ha condannato Mimmo Lucano.
In questo caso vengono in soccorso i numeri: su 21 capi di imputazione, per 9 è stato assolto. E tra il non riconoscimento delle attenuanti generiche, l’inquadramento dei casi con il vincolo di continuazione perché figli dello stesso presunto progetto criminoso e la somma tra i due filoni di reati (peculato, associazione per delinquere e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche da una parte e il falso in certificato e l’abuso di ufficio dall’altra) il calcolo totale è fatto. Da questi numeri e dalle 900 pagine di motivazioni Lucano, la sua difesa e gli altri imputati dovranno ripartire per impugnare la sentenza in Appello. L’ex sindaco ha commentato le parole dei giudici: «Sicuro che dimostrerò la mia innocenza, sono stato condannato in base a cose non vere». Intanto si è attivata la solidarietà ad intermittenza di chi è vibrante e repentino nel demonizzare la durezza dell’azione penale quando si scaglia nei confronti dei “buoni” (gli amici), dimenticando sempre chi invece è l’avversario politico e per questo deve marcire in galera. Garantismo a pendolo, direbbe il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza.
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