Di cosa parliamo quando parliamo di guerra? Cosa si manifesta attraverso la guerra? Coincide con l’umano o è qualcosa che eccede l’umano? Qual è veramente la forza che muove gli eserciti e decide le sorti delle battaglie? A questi interrogativi radicali provò a rispondere Tolstoj, e, nel cuore del ‘900, uno scrittore immenso e profondamente tolstojano, Vassilij Grossman con Vita e destino, finito di scrivere nel 1960, ma censurato in Urss e pubblicato solo nel 1980, in Svizzera. A differenza di Tolstoj Grossman, in qualità di corrispondente dell’Armata Rossa, partecipò alla guerra che racconta.

Un romanzo fluviale, epico, che racconta tre anni di guerra e che ha al suo centro il Lager nazista e il gulag sovietico, i due luoghi simbolici che riassumono il secolo dei totalitarismi (segretamente affini – come qui mostra il dialogo tra un ufficiale SS e un commissario bolscevico suo prigioniero – però mai davvero equiparati contrariamente a ciò che credeva lo storico Furet: il comunismo fu almeno più “tragico” poiché aspirava a un mondo di liberi ed eguali). Un romanzo di impianto piuttosto tradizionale (solo con digressioni di tipo saggistico), che rovescia tutte le supponenti categorie dell’avanguardia, il suo culto ingenuo della novità e dell’oltranza formale: Vita e destino con quella trasparenza e linearità narrativa a tratti perfino convenzionale ci è più contemporaneo di Joyce e Robbe-Grillet!

Protagonista è la famiglia Saposnikov, a partire dalla matriarca Alexandra Vladimirovna, e poi la figlia maggiore Ljudmila, e il marito Strum, geniale fisico teorico che si piega – dolorosamente – a molti compromessi, la figlia minore Zenia, sposata al commissario politico Krymov, ma della quale si innamora il colonnello dei carristi Novikov… L’intero romanzo è affollato di voci e di idiomi, una vasta moltitudine di esseri umani che esce continuamente dalla pagina: deportati dei campi di concentramento, militari russi e tedeschi, funzionari, scienziati, bolscevichi, vincitori e vinti. Lo scenario principale è la battaglia di Stalingrado, alla fine del 1942: il romanzo Stalingrado, che uscì nel 1952 a puntate per una rivista con il titolo “Per una giusta causa”, ne costituisce la prima parte (ora pubblicato da Adelphi, come l’intera opera di Grossman). Per quanto già inviso ai burocrati di partito per il suo punto di vista eretico, non contiene però ancora una esplicita denuncia della involuzione autoritaria della Rivoluzione d’Ottobre, della collettivizzazione forzata, del clima staliniano di terrore e delle “barbarie del trentasette”.

Vita e destino celebra la eroica vittoria dell’Armata Rossa, tuttavia al fondo, come in Tolstoj, troviamo un forte sentimento creaturale di evidente origine cristiana, la idea che “nella sua irripetibilità, nella sua unicità risiede l’anima di ogni singola vita”. Si pensi solo alla descrizione dei prigionieri tedeschi, che camminavano malandati e pieni d’angoscia: “Quella folla di uomini brutti, di figli di altrettante madri, era meravigliosamente, fraternamente simile alle folle dei soldati sofferenti e degli sventurati figli di madri russe che i tedeschi avevano spinto a colpi di bastone verso i campi di concentramento…”. Sarebbe arbitrario qualsiasi prelievo da un romanzo di quasi mille pagine. Per dare però un solo esempio della forza metaforica della scrittura cito dalle prime pagine: “Aveva nevicato, prima dell’alba…per i russi fu una gioia velata di tristezza. La Russia alitava su di loro, stendeva la sua coltre di madre sotto i loro poveri piedi martoriati…”.

A un certo punto si tenta una spiegazione del male nella Storia. Un prigioniero del Lager, seguace del tolstojsmo evangelico e poi rinchiuso in manicomio, dice: “Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà”. Stragi e crimini sono quasi sempre realizzati “ a fin di bene”: “ho visto uccidere nel nome di un ideale bello e umano”, in nome della “grande, luminosa idea del bene sociale”. I guai cominciano quando qualcuno ritiene di incarnare il bene e così – immacolato – si ostina a voler riparare il mondo. Sul piano della Storia invece il bene non si trova mai. Esiste però la bontà – del tutto gratuita – che si manifesta almeno una volta nella vita di ogni persona.

Grossman, pur con la consapevolezza tragica della vicenda storica e della insondabile ambiguità dell’animo umano (“Perché mentiva? Perché discuteva con Sokolov mentre in cuor suo era d’accordo con lui?”) , è troppo imbevuto di letteratura russa per cedere al nichilismo disperato ed estetizzante fiorito in Occidente: “oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni….la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie”. Contro di essa il male, apparentemente e temporaneamente vincente, non può nulla! La intera narrazione è percorsa da una robusta fede di tipo umanistico nei valori della autenticità, della libertà, dell’amicizia: anche quando il destino del mondo “riduce tutto in polvere di Lager” non è in grado di “cambiare coloro che rispondono al nome di uomini, e “questa è la vittoria amara ed eterna degli uomini su tutte le forze possenti e disumane che sempre saranno su ciò che passa e ciò che resta”. Grossman tuttavia professa una morale nient’affatto eroica o decisionista: “è alle persone indecise e dubbiose che si debbono le grandi scoperte e i grandi libri” (Stumm).

Non bisogna credere però che la guerra occupi l’intero spazio del racconto. L’innamoramento di Strum per la moglie del collega Sokolov, Mar’ja Ivanovna, con i denti storti, le labbra sottili, sbiadite” (ma quando sorride il volto pallido e grigiastro si fa affascinante!) è una delle più belle storie d’amore del ‘900, raccontata con la finezza psicologica di Turgenev e la struggente malinconia autunnale di Cechov. Come in Guerra e pace epica dell’esistenza (celebrata nella sua miseria e nella sua grandezza) e epica della realtà si incontrano nelle sterminate, nebbiose distese russe, in un teatro fitto di umanità, dove si consumano combattimenti furiosi per poi fatalmente concludersi (come peraltro avviene anche nella Gerusalemme liberata). Tutto scorre, tutto viene ricompreso nel ciclo eterno della natura e del trascorrere delle stagioni: al silenzio triste del bosco, pieno di gemiti, succede come sempre la vita rumorosa, con i pianti e le risa dei bambini: “la nebbia fluttuava sul Volga er sembrava aver inghiottito ogni forma di vita.

Poi di colpo il sole si levò, e fu un’esplosione di speranza….”E anche se, occorre pur constatare, “di enorme ed eterno come la terra c’era il dolore”. Torno alla domanda iniziale sul perché della guerra. La risposta di Tolstoj e di Grossman, è l’idea di un potere impassibile che si esprime nei movimenti dei popoli, una forza arcana e per niente provvidenziale, espressione di una vita universale (sconfinata e incomprensibile), una necessità inesorabile che sovrasta l’individuo e che Napoleone – incarnazione moderna del mito della politica – si illudeva di governare (come ha osservato Nicola Chiaromonte).

Ora, di fronte a questa forza enigmatica, di fronte alla rivelazione del “fondo oscuro delle cose”, che possiamo fare? Arrenderci fatalisticamente alla Necessità (di cui non conosceremo mai le leggi)? Grossman ritiene di no. Anzitutto perché da quella forza misteriosa discende anche l’amore gratuito e la carità individuale (il cuore umano, altrettanto misterioso, è una struttura ben reale di questo universo). E poi perché gli esseri umani appartengono sì all’ordine naturale – fondato sul primato del più forte, come dissero con realismo gli ateniesi agli sventurati abitanti di Melo prima di distruggerli – ma possono anche trascenderlo attraverso la scelta morale (sempre arbitraria, eppure ben solida), attraverso la umanissima cognizione del limite e della misura.