Se Augusta Montaruli fosse stata consigliera regionale in Lombardia invece che in Piemonte, oggi sarebbe ancora sottosegretario all’università. Perché la cassazione, si proprio lo stesso organismo che ha confermato le condanne piemontesi, ha accolto per i lombardi una riqualificazione del reato proposta dall’avvocato Jacopo Pensa e altri legali.

Così l’articolo 314 del codice penale, cioè il peculato (pena da 4 a dieci anni e sei mesi) si è trasformato nel 316 ter, cioè indebita percezione di erogazioni pubbliche, con pena da sei mesi a tre anni e da uno a quattro anni in caso di pubblico ufficiale. E reato prescritto, a questo punto. Non si è posto nessun problema di dimissioni dal ruolo di capogruppo della Lega al Senato, per esempio, per Massimiliano Romeo. Ammesso che tutte queste perdite di galloni decise dai processi abbiano un senso. Ancora meglio sarebbe andata per Augusta Montaruli in Liguria, dove sono fioccate le assoluzioni, piuttosto che in Emilia-Romagna, dove ne sa qualcosa l’ex consigliere regionale Stefano Bonaccini, il candidato alla segreteria del Pd che ha sguainato subito lo spadone in favore delle dimissioni della sottosegretaria.

Chissà come sarebbero andate le sue vicende politiche se avesse trovato sul suo cammino a Bologna un pm come il piemontese Giancarlo Avenati Bassi? Uno che, di fronte al fatto che la gran parte degli imputati accusati di peculato per i famosi rimborsi fosse stata assolta nel processo di primo grado, considerata non colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”, non solo è ricorso in appello, ma ha chiesto e ottenuto di indossare per la seconda volta la toga nell’aula. Proprio come avrebbe voluto il suo collega milanese Fabio De Pasquale nel processo Eni, se gli fosse stato concesso e se l’appello fosse poi stato celebrato. Ma c’è toga e toga, e non è solo questione di separazione delle carriere.

Chi non vorrebbe per esempio incontrare sul proprio cammino uno come Letizio Magliaro, gip a Bologna? Cioè il magistrato che in una sentenza di assoluzione del 2015 auspicava che certe manifestazioni autopromozionali ed elettorali dei consiglieri trovassero sanzioni fuori dal processo penale. E poi esprimeva “l’amara constatazione che se ciò normalmente non accade, non può però indurre a una impropria sostituzione della responsabilità penale a quella politica; su ciò di cui il giudice penale non può parlare, occorre tacere”. Ben diverso e sbrigativo quel pm di Milano che diceva “lo so che è sempre stato così, ma non mi interessa, per me è peculato”. Qualificazione molto discutibile, dal momento che è difficile considerare il gruppo consiliare come un ente di diritto pubblico. Il che è proprio il nodo giuridico del problema.

Cosa di cui si infischiano quasi tutti i giornalisti italiani, più interessati al fatto che Nicole Minetti avesse comprato “Mignottocrazia”, un libro politico di Paolo Guzzanti dal titolo pruriginoso, oppure Augusta Montaruli una modesta borsa di Borbonese da mettere in palio a un evento di beneficenza. Su cui non solo i giornalisti si sono mostrati superficiali e moralisti, ma anche qualche magistrato disinformato, che col ditino alzato ci ha informato che Borbonese produce solo borse in pelle e “lussuose”. Naturalmente non è vero, stiamo parlando di valori inferiori a duecento euro, ben lontani dalle migliaia di brand come Hermès. Ma parole come lussuoso” o “prestigioso” paiono proprio finalizzate a invocare forche appese in piazza.

E’ tutta assurda la storia di questa “Rimborsopoli”, sorella minore di “Tangentopoli”, scoppiata vent’anni dopo nel momento di quel grido onestà-onestà che allora rimbombava nelle nostre orecchie e ora fa vergognare anche chi lo gridava. Per decenni, cioè da sempre, sia i gruppi parlamentari che quelli consiliari regionali di ogni partito hanno avuto in dotazione finanziamenti che erano affidati alla totale discrezionalità degli eletti. Alla Camera per esempio il gruppo misto li ha sempre distribuiti a ogni singolo parlamentare senza nessuna rendicontazione su come venivano spesi. I gruppi che si riferivano ai partiti invece li gestivano in modo centralizzato. Nelle Regioni invece sono sempre stati distribuiti a titolo di rimborso spese, giustificate con scontrini e sempre approvate, nelle voci di bilancio, dalle stesse Corti dei Conti. Una forma di autogestione, presupposto della libertà dell’eletto. Poi improvvisamente, proprio come era stato per Tangentopoli, una scintilla ha appiccato il fuoco.

Forse qualche eccesso, qualche esibizione fuori dalle righe, hanno trasformato onesti rimborsi in “spese pazze” e le rendicontazioni in Rimborsopoli. E poi anche il primo suicidio, quello dell’ex capogruppo di Forza Italia in Regione Piemonte, Angelo Burzi, un liberale rigoroso e anche un po’ pignolo sui conti pubblici da assessore al bilancio. Che dopo l’assoluzione del primo processo ha subito altri dieci anni di tormenti, poi la condanna, insieme all’ex presidente Roberto Cota, altro esemplare di rettitudine, e poi la gogna, fino a non sopportarlo più. E oggi abbiamo le prime dimissioni, quelle della sottosegretaria Augusta Montaruli. Quanti “incidenti” di giustizia dovremo aspettare prima che Giorgia Meloni apra gli occhi e capisca che nessuno è immune al circo mediatico-giudiziario?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.