Detto sine ira et studio: un riformista non può scegliere di votare per il Pd, sabato e domenica prossimi. Essere riformisti significa prima di tutto rimanere saldamente ancorati al campo geopolitico, storico e culturale dell’Occidente democratico. Sono lontane da questa visione le parole di Marco Tarquinio, candidato indipendente del PD, che l’altro ieri ha chiesto lo scioglimento della NATO, ed è stato spalleggiato ieri da Nicola Zingaretti, già segretario del PD, che ha sostenuto trattarsi di una “denuncia forte… che credo sia giusta”.
Neppure è da riformisti dire – parole di Elly Schlein – che “tutta la comunità internazionale deve fermare Netanyahu”, senza pronunciare un’acca sul terrorismo di Hamas che ha scatenato la reazione di Israele. Se poi – per noi è così – riformismo è sinonimo di garantismo, sempre, per chiunque e in qualunque circostanza, non è da garantisti chiedere dimissioni “per opportunità” di un politico indagato con accuse che potrebbero rivelarsi infondate, come ha fatto Elly Schlein parlando di Toti, “per il quadro grave che emerge”, perché “non si aspettano le sentenze, bisogna anticipare i giudizi”. Parole agghiaccianti, degne del peggiore giustizialismo grillino.
Ma andiamo al punto politico. Per razzolare voti il PD sta scegliendo di raschiare il fondo del barile, scatenandosi in estremismi verbali. E però, anche se questa agitazione dovesse portare qualche voto in più, che cosa se ne farebbe mai il PD? Con una piattaforma tutta spostata “a sinistra” potrebbe mai proporsi come alternativa di governo? Certamente no, potrebbe al massimo garantire un po’ di sopravvivenza per la segreteria Schlein.
Per questi semplici motivi, buona fortuna ai dirigenti del PD per una operazione di cortissimo respiro, spregiudicata e cinica. I riformisti penso che saranno altrove, l’8 e 9 giugno.
P.S. Resterebbe da dire una parola sui “riformisti” del PD. O meglio, parole da dire non ce ne sono. Perché i nostri eroi non risultano agli atti.