Il messaggio degli Stati Uniti era stato esplicito. La dichiarazione congiunta della Casa Bianca e degli alleati prima del raid della scorsa notte contro le basi Houthi in Yemen chiariva che quello sarebbe stato l’ultimo avvertimento. E che senza la fine degli attacchi contro le navi commerciali nel Mar Rosso, la milizia filoiraniana sarebbe stata l’unica responsabile delle conseguenze. Da Sanaa, però, non erano arrivati segnali di distensione. Anzi, all’inizio di questa settimana il comando centrale degli Stati Uniti, Centcom, che si occupa delle operazioni Usa nel Medio Oriente, aveva confermato il più massiccio lancio di droni e di missili dall’inizio dell’escalation nel Mar Rosso. E gli stessi Houthi, attraverso il proprio portavoce, avevano rivendicato l’azione ricordando che si trattava di una reazione agli attacchi di Washington contro le proprie forze navali e che quella guerra non si sarebbe fermata fino alla fine del conflitto nella Striscia di Gaza.

Per il presidente Usa Joe Biden, quell’attacco è stato probabilmente il giro di boa decisivo. Il capo della Casa Bianca per settimane ha tentennato rispetto a un’azione diretta contro le forze filoiraniane dello Yemen, preferendo una strategia di pressione e di deterrenza con navi (americane e alleate) schierate per intercettare i mezzi Houthi ed eliminare il pericolo per le portacontainer. Un modo per evitare l’escalation regionale ma soprattutto per lanciare un monito all’Iran, regista della strategia degli alleati yemeniti e rivale indiretto della guerra-ombra che si combatte tra Washington e Teheran. Tuttavia, lo stesso Biden si è trovato di fronte a una situazione complicata: da una parte l’evidente difficoltà nel far comprendere alle milizie yemenite di interrompere la loro strategia della tensione; dall’altra parte le crescenti pressioni di più segmenti degli apparati Usa e internazionali riguardo la necessità di un colpo chirurgico ma più assertivo nei confronti dei ribelli sciiti.

Si è arrivati così all’operazione che alle prime ore del 12 gennaio potrebbe avere cambiato per sempre la percezione dell’escalation regionale. Un attacco che, come si legge nella nota congiunta dei Paesi coinvolti, ha avuto come protagonisti principalmente Stati Uniti e Regno Unito “con il sostegno di Paesi Bassi, Canada, Bahrein e Australia”. Il tenente generale delle forze aeree di Centcom, Alex Grynkewich, ha fornito i numeri del raid. Le forze della coalizione, hanno riferito i media Usa, “hanno eseguito attacchi su oltre 60 obiettivi situati in 16 posizioni di militanti Houthi sostenute dall’Iran, tra cui nodi comandi, depositi di munizioni, sistemi di lancio, impianti di produzione e sistemi radar di difesa aerea”. I missili sono stati lanciati da navi, sottomarini e dagli aerei di entrambi gli Stati. Il ministero della Difesa britannico, in un comunicato molto dettagliato su quanto avvenuto, ha scritto che Londra, per l’occasione, ha utilizzato quattro aerei Typhoon, un aereo per il rifornimento, e bombe guidate Paveway IV per colpire due basi Houthi.

“Uno era un sito a Bani, nello Yemen nordoccidentale, utilizzato per lanciare droni d’attacco e da ricognizione” si legge nella nota, “l’’altro luogo colpito dai nostri aerei è stato l’aeroporto di Abbs. L’intelligence ha dimostrato che è stato utilizzato per lanciare sia missili da crociera che droni sul Mar Rosso”. Dagli Stati Uniti, le informazioni sulle armi e i mezzi utilizzati durante il raid si sono evolute nel corso della giornata. Protagonisti dell’attacco alle basi sciite dello Yemen sono stati i missili Tomahawk, una delle armi più note dell’arsenale di Washington e utilizzati più volte proprio nelle sue campagne mediorientali. A lanciare i missili sono stati principalmente il sottomarino Uss Florida e le unità della flotta di superficie della Us Navy. Nel Mar Rosso, proprio per intercettare i droni e missili che partono dalle basi Houthi, da tempo opera lo Uss Carney, nave della classe Arleigh-Burke. Alcuni osservatori hanno poi sottolineato che al comunicato di Centcom è stato allegato un video proveniente dal ponte della portaerei Uss Dwight D. Eisenhower. Mentre altre fonti parlano di un impiego di aerei EA-18G Growler e F/A-18 Super Hornet.

Un attacco che è stato sicuramente imponente, ma che ha cercato di ridurre il più possibile i danni collaterali. Non solo contro i civili, ma anche politici. Non a caso, Sky News Arabia ha riferito che, in base a fonti ben informate, gli Stati Uniti avrebbero avvertito gli Houthi prima del raid, in modo da evitare il rischio di una reazione in grado di infiammare la regione. E a questo proposito, vale anche la pena sottolineare il tenore delle dichiarazioni da Washington dopo l’attacco. Biden, nella sua nota ufficiale, ha affermato che non esiterà “a prendere ulteriori misure per proteggere il nostro popolo e il libero flusso del commercio internazionale” e rilanciato il fatto che “gli Stati Uniti e i nostri partner non tollereranno attacchi al nostro personale né permetteranno ad attori ostili di mettere in pericolo la libertà di navigazione in una delle rotte commerciali più critiche del mondo”.

Tuttavia, il portavoce del Consiglio nazionale di sicurezza Usa, John Kirby, ha assicurato che “non vi è ragione di una escalation oltre quanto avvenuto negli ultimi giorni”. Un segnale che riguarda non solo gli Houthi, ma anche l’Iran.
Le prossime ore appaiono a questo punto decisive. Il viceministro degli Esteri Houthi, Hussein Al-Ezzi, ha detto che “gli Stati Uniti e il Regno Unito devono prepararsi a pagare un prezzo elevato e a sopportare le pesanti conseguenze di questa aggressione”.
E intanto a muoversi è anche l’Unione europea, che sembra essersi attivata per mettere a punto una missione probabilmente ampliando il raggio d’azione di Agenor, l’operazione nata per il monitoraggio del Golfo Persico. Bruxelles appare molto cauta. Ma il rischio di una escalation incontrollata rischia di essere sempre più rilevante anche per la stabilità dell’Ue.