«C’è vita su Marte? Mah, giusto un po’ il sabato sera» Corrado Guzzanti (parafrasi)

Gesù stava predicando a Cafarnao, la città di San Pietro. Un centurione, che aveva un suo caro servitore in punto di morte, venne a sapere della presenza di Gesù in città. Conoscendo le sue virtù di taumaturgo, si recò da lui e lo implorò di aiutarlo, dicendogli: «Signore, non stare a disturbarti, io non son degno di accoglierti sotto il mio tetto; pronuncia solo un tuo comando e il mio servo guarirà». Gesù, ammirato dalla fede di questo rude soldato, gli rispose che non occorreva altro e che tornasse a casa. Il centurione obbedì, sapendo che avrebbe ritrovato il suo amico sano e salvo. E così fu. Parola dell’Evangelista Luca.

Gli scienziati della Nasa hanno fede nella tecnologia, ma non quanto il centurione in Gesù. Quando la navicella della missione Mars 2020 è entrata alla velocità di 20mila km l’ora nell’atmosfera di Marte, non erano altrettanto sicuri che la loro sonda Perseverance presente al suo interno sarebbe sopravvissuta. Infatti, anche loro, come il centurione, non potevano conoscerne subito la sorte. Al centurione serviva il tempo per correre a casa e verificare (ciò che tuttavia il suo cuore già gli assicurava). Anche ai segnali radio provenienti da Marte con l’eventuale novella del felice atterraggio è servito tempo. E, con tutta probabilità, un tempo confrontabile a quello impiegato dal centurione! Una decina di minuti… Sì, perché Cafarnao era una piccola città e un centurione allenato alle marce avrà impiegato alcuni minuti per tornare a casa dal luogo del mistico incontro. I segnali radio sono molto più rapidi di un centurione in corsa, ma devono coprire una distanza molto più grande delle dimensioni di Cafarnao. Si dà il caso che le differenze tra le due quantità in gioco, la velocità e la distanza, si compensino in modo che la durata sia simile in entrambi i casi: la luce -e i segnali radio, che hanno la stessa natura della luce- percorre 300mila chilometri (per intenderci, circa otto volte il giro del mondo) in un secondo. Quindi, per coprire l’attuale distanza tra Marte e la Terra, di 200 milioni di chilometri, le occorrono circa 11 minuti…

Per Perseverance, le cose sono andate così: stava viaggiando ad altissima velocità verso Marte. È entrata nell’atmosfera di Marte ed è stata frenata dall’attrito, protetta come Goldrake da uno scudo termico. A questo punto ha sganciato sia lo scudo che la capsula in cui era contenuta, e ha aperto un gigantesco paracadute per rallentare ulteriormente. Infine si è liberata anche del paracadute e ha acceso i retrorazzi, posandosi dolcemente al suolo. O almeno questo è ciò che speravano i tecnici della Nasa, che hanno battezzato questa fase di atterraggio (o, se volete, ammartaggio) come i “sette minuti di terrore”, tempo intercorso tra l’inizio del riscaldamento dello scudo termico e l’arrivo al suolo.

Ci voleva il cuore del centurione per evitare le fibrillazioni dell’angosciosa attesa. E gli scienziati della Nasa hanno anch’essi fede nella tecnologia ma, come detto, non altrettanta! Il destino del lavoro di molti anni si era appena compiuto, però nessuno sapeva l’esito finale, come una partita di calcio di cui non conosciamo il risultato e che ci guardiamo dopo che si è già conclusa. Infatti, quando i primi segnali dell’ingresso nell’atmosfera di Marte sono arrivati a Cape Canaveral, con undici minuti di ritardo rispetto l’ingresso effettivo, la sonda aveva già trascorso i sette minuti critici ed era al suolo ormai da quattro minuti. Ma in che condizioni? In ottima forma, pronta a svolgere le sue missioni future, o sparsa in un raggio di centinaia di metri, essendosi sfracellata?

Infine, dopo undici eterni minuti, l’agognato segnale è giunto. Forte, nitido, inequivocabile. Era la prima foto scattata da Perseverance, il rover, cioè l’automobile telecomandata adatta al suolo di Marte, più sofisticata, equipaggiata e massiccia delle cinque inviate finora. Descrivere le funzioni di Perseverance, soprattutto descriverle in modo comprensibile, richiederebbe ben più delle tremila battute che mi restano. Oltretutto, su queste stesse pagine, il 18 febbraio scorso, Elisabetta Panico ha già autorevolmente illustrato gli strumenti tecnici di cui è fornita Perseverance. Ma qualcosina per sognare insieme la voglio aggiungere. Non riflettiamo spesso sul fatto che, oltre le pareti di casa o dell’ufficio, oltre quello che ci appare allo sguardo, oltre il padiglione celeste che ci sovrasta, oltre l’ermo colle e la siepe che preclude la vista dell’estremo orizzonte, ci sono altri mondi, mondi e ancora mondi. Non frutto di astrazioni di filosofi eretici e stravaganti, ma mondi reali. Mentre noi siamo qui, in questo preciso istante, innumerevoli mondi sono lassù da qualche parte, e anche laggiù, e ovunque. Ce li possiamo solo raffigurare con l’immaginazione, ma ci sono.

Vivono di vita propria, con loro distese sterminate, di sabbia, di polvere, di roccia; i loro mari e i loro laghi -magari di metano liquido-; le loro calotte polari di ghiaccio d’acqua e di ghiaccio secco; i loro venti, ora brezze carezzevoli, ora tempeste impetuose, che il microfono di Perseverance ci farà ascoltare per la prima volta. E forse anche la vita propriamente detta. Questo, soprattutto, cercherà Perseverance su Marte. Forme microscopiche di vita fossile, di esseri estinti da ere geologiche ma di cui, magari, resta tuttavia qualche minima traccia. Il senso di questa missione è proprio di sperimentare: sperimentare tecniche di indagine e sperimentare nuove possibilità di ricerca. Ad esempio, scindere le molecole del gas atmosferico per estrarne ossigeno utile alla respirazione, o purificare il ghiaccio marziano, contaminato e velenoso, per ottenerne acqua potabile. Ma, soprattutto, nel grembo di Perseverance, protetto come un cucciolo di marsupiale nella sacca materna, c’è una sorpresa insospettabile.

Un elicotterino, un drone provvisto di una telecamera per esplorare per la prima volta dall’alto la superficie di un altro pianeta ed arrivare dove un rover su ruote non può avventurarsi. L’elicotterino si chiama Ingenuity, che non si traduce come potremmo sbrigativamente pensare, “ingenuità”, ma “ingegno, ingegnosità”. E di ingegno ne occorreva davvero parecchio per immaginare il volo di un elicottero nella quasi totale assenza d’aria (o altro gas che sia). Infatti, le pale dell’elicottero si avvitano nell’aria e la spingono in basso così forte, da sostenere il peso della cabina, come si vede in atterraggio e in decollo quando alzano nuvole di polvere da terra o appiattiscono l’erba dei prati. Su Marte la densità del gas atmosferico (essenzialmente anidride carbonica) è un centesimo di quella terrestre, la stessa che troviamo a 30 chilometri di altezza qui sulla Terra, e a cui nessun velivolo tradizionale si è mai spinto.

Per ovviare a questo piccolo inconveniente, Ingenuity ha della pale spropositate per la sua dimensione, che girano cinque volte più velocemente di quelle di un normale elicottero. Poi è leggerissimo, non solo perché su Marte il peso è un terzo che sulla Terra, ma perché Ingenuity è fatto in gran parte di fibra di carbonio e alimentato da batterie equivalenti a quelle di tre telefoni cellulari. E solo una di queste servirà per il volo. Le altre due dovranno tenere tiepidi i dispositivi elettronici di bordo che si ghiaccerebbero nella gelida notte marziana. Quindi i voli saranno di soli 90 secondi e mai nelle prime ore dell’alba, perché bisognerà dare un po’ di tempo alle batterie esauste per ricaricarsi con pannelli fotovoltaici in affanno, perché alimentati dal tenue bagliore di un Sole ormai così lontano.

Ma ogni volta saranno 90 secondi gloriosi, in cui Ingenuity agirà in perfetta autonomia, potendo contare esclusivamente sulle proprie capacità, perché ogni comando da Terra impiegherebbe quei fatidici undici minuti che lo renderebbero inservibile. Se in futuro vorremo davvero che Marte diventi la nuova meta del genere umano, occorrerà armarsi della perseveranza di Perseverance, dell’ingegno di Ingenuity e, soprattutto, riporre nelle nostre capacità la fede… del Centurione.