What the hell is going on? Quello che doveva essere un tranquillo venerdì di fine aprile al London Metals Exchange, la borsa londinese dei metalli, si è invece rivelata una seduta ad alto tasso adrenalinico.
Le attenzioni sono tutte rivolte al future sul rame il cui contratto a 3 mesi è appena tornato sui $10.000/tonnellata. Un livello a cui non si assisteva dall’aprile 2022, ossia nel pieno della prima fase della crisi del mercato delle commodities culminata pochi mesi dopo l’aggressione russa dell’Ucraina. Crisi che avrebbe poi fatto da apripista a una fase di raffreddamento durata due anni, alimentando le attese che il peggio fosse oramai passato. E invece da inizio aprile Dr Copper, come viene affettuosamente apostrofato dai trader per le capacità predittive sulle dinamiche dell’economia mondiale, è tornato a ruggire.
Sul piano strutturale, in realtà, questa nuova impennata non sorprende più di tanto in ragione delle aspettative rialziste di lungo termine mai veramente abbandonate che avevo descritto già 3 anni fa in Materia Rara (Guerini editore). L’aspetto interessante è invece il timing dell’impennata, che arriva in un contesto di domanda industriale molto bassa in Europa e crisi nel comparto delle costruzioni in Cina. Indubbiamente in questi ultimi mesi nuovi elementi a supporto del consumo si sono fatti strada, come gli investimenti infrastrutturali negli States e la transizione dell’economia cinese da un modello basato sul mercato immobiliare e investimenti pubblici a uno invece incentrato sulla manifattura ad alto valore aggiunto.
Ma le suddette dinamiche non bastano a motivare un’accelerazione di quasi $2000/tonnellata in appena 1 mese, che non è certamente un caso isolato, ma arriva a ridosso del raggiungimento dei massimi storici di $2430/oncia anche di un altro metallo strategico come l’oro. Insomma, che cosa sta accadendo nel mercato delle materie prime? Come spesso avviene in un settore opaco come quello delle commodities, di dati veramente affidabili ne girano pochi, ma nelle sale trading delle banche d’affari circola il sospetto come dietro gli acquisti di risorse naturali (petrolio compreso) possa esserci Pechino.
Si parla di sospetto perché è possibile che il governo cinese utilizzi degli hedge fund come longa manus per questo genere di operazioni e mantenere quindi l’anonimato. Per quale motivo? È probabile che Pechino stia comprando materie prime a mani basse per garantire una regolare capacità produttiva al settore militare e manifatturiero anche alla luce delle possibili sanzioni che Washington ha già tra l’altro ventilato. Un’altra ipotesi verte sull’obiettivo di creare un cuscinetto di protezione per affrontare un’imminente svalutazione dello yuan e permettere così ai prodotti ad alto valore aggiunto dell’ex Celeste Impero, come le auto elettriche, di attaccare i mercati internazionali e rispondere al protezionismo occidentale.
Ma a prescindere dalle motivazioni, l’assertività cinese sul comparto delle materie rappresenta un campanello di allarme per le cancellerie europee, che però rimangono incerte su come affrontare un dossier su cui dovrebbero ruotare gli sbandierati obiettivi di autonomia strategica, se pensiamo anche all’importanza dei metalli non solo nelle applicazioni green ma anche nello sviluppo dei data center (cloud, intelligenza artificiale). Non mancano veri e propri errori: l’imposizione di sanzioni contro le materie prime prodotte da Mosca sta favorendo l’ascesa di Pechino come giocatore di riferimento nel mercato delle materie prime. Solo per fare un esempio, a seguito delle sanzioni applicate contro i metalli prodotti in Russia è ragionevole attendersi che la Cina diventerà l’hub mondiale dell’alluminio.
Certo, qualche passo in avanti si è fatto: quest’anno la Commissione di Bruxelles ha presentato l’European Critical Raw Material Act, che ha avuto il merito per lo meno di fotografare una serie di criticità che gli addetti ai lavori denunciavano da tempo, ossia il controllo cinese sulle materie prime critiche. Lo stesso governo italiano ha annunciato recentemente un fondo sulle materie prime al fine di avviare lo sfruttamento minerario nel paese. Ma occorre fare di più. In quest’ottica il Piano Mattei riveste un ruolo di primo piano. Il primo elemento che naturalmente risalta agli occhi è la ricchezza del sottosuolo e dei fondali africani.
Solo per dare un’idea la Repubblica Democratica del Congo detiene circa il 70% delle riserve mondiali di cobalto, mentre lo Zimbabwe ospita le più ricche riserve di litio del continente. Particolarmente critica è la situazione nel comparto delle terre rare la cui produzione è totalmente controllata dalla Cina.
Il problema di fondo rimane quello delle risorse finanziarie, dato che un progetto minerario e la raffinazione di metalli e terre rare (dove vi è il vero collo di bottiglia) necessitano di investimenti davvero cospicui che nessun paese europeo (Germania inclusa) sarebbe in grado di affrontare da solo. Investimenti che dovrebbero prevedere oltre allo sfruttamento delle miniere anche il processo di raffinazione al fine di creare nei singoli Paesi africani una catena del valore che produca benessere alla popolazione locale e sviluppi così un ecosistema al servizio della futura settore manifatturiero.
L’esempio emblematico è quello dell’Indonesia che, dopo aver fortemente limitato l’export di minerale di nichel, sta sviluppando insieme a Pechino una filiera industriale per la produzione di batterie per auto elettriche. In quest’ottica Roma, che ora presiede il G7, potrebbe farsi coordinatrice tra i Paesi membri di un’iniziativa che preveda la creazione di partnership finalizzate allo sviluppo di specifici investimenti minerari finanziati a tassi agevolati dalla BCE. Operativamente, il compito di selezionare i progetti e creare i veicoli più adatti – coinvolgendo anche attori privati – potrebbe essere affidato alla Difesa, la cui visione strategica rappresenta un elemento di enorme valore aggiunto di cui il Paese non può assolutamente fare a meno.