Lo scontro fra Donald Trump e Twitter obbliga a riflettere su temi la cui importanza travalica di molto quella dei motivi contingenti che hanno dato luogo all’accesa contrapposizione fra i protagonisti della vicenda. I fatti sono noti. In nome di una policy aziendale volta a contrastare la disinformazione politica, il social network ha sottoposto a fact-checking alcuni cinguettii del Presidente americano, segnalando come controverse le affermazioni in essi contenute. Trump ha reagito impugnando la bandiera della libertà di espressione e ha emanato un ordine esecutivo inteso a far venire meno l’immunità che la legge garantisce alle piattaforme digitali per i contenuti pubblicati da terze parti. La decisione di Trump è stata duramente contestata, tra gli altri, da Amnesty International, che ha definito l’ordine esecutivo «pericoloso e irresponsabile». In senso critico nei confronti di Twitter si è espresso invece Mark Zuckerberg, il quale ha quasi evocato fantasmi di orwelliana memoria, sostenendo che un social network non può e non deve ergersi ad arbitro della verità.

Dico subito che sarebbe fuorviante interpretare la vicenda soltanto alla luce dei nobili principi invocati dai contendenti a sostegno delle loro rispettive posizioni: da un lato, la libertà di manifestazione del pensiero; dall’altro, la lotta alla disinformazione in rete. Come pure sarebbe fuorviante farsi influenzare da pregiudizi di carattere politico, e cedere all’impulso di schierarsi contro un Presidente degli Stati Uniti del quale è quasi sempre difficile, almeno per chi scrive, condividere le iniziative. La posta in gioco, in realtà, è un’altra. E niente aiuta a comprenderne la portata quanto l’intervento del fondatore di Facebook. Diversamente da ciò che potrebbero far pensare le non velate critiche rivolte da Zuckerberg al concorrente Twitter, anche Facebook esercita una forma di controllo sui contenuti postati dagli utenti, ad esempio bloccando quelli che incitano all’odio e alla violenza.

Né vale obiettare che una cosa è contrastare la violenza e l’odio, altra è pretendere di discernere il falso dal vero nel variegato campo della comunicazione politica. Si tratta comunque, in entrambi i casi, di esercitare un controllo sui contenuti. Che dire, poi, del fatto – ricordato da Mattia Feltri su La Stampa del 30 maggio – che Facebook ha oscurato in Turchia la pagina di un corrispondente di Radio radicale reo di aver difeso gli oppositori di Erdogan? Del resto, in un procedimento giudiziario celebrato in California nel luglio 2018 il difensore di Facebook ha sostenuto che il suo cliente ha il diritto di decidere cosa pubblicare, perché è un publisher, un editore. Un editore a corrente alternata, secondo le convenienze del caso.

Eccoci così giunti al vero nocciolo della questione: la irresponsabilità editoriale delle piattaforme. I social network, e ancor più i motori di ricerca, si comportano come editori, a mio avviso del tutto legittimamente. Però sono esenti – a mio avviso del tutto illegittimamente – da responsabilità editoriale. L’accurata profilazione di miliardi di individui consente ai giganti del web di incidere sulle scelte e sugli orientamenti del pubblico, non solo in campo economico ma anche in quello politico, ben più a fondo di quanto non facciano gli operatori dei media tradizionali, editori e broadcaster. A differenza di questi ultimi, i Big Tech non sono però gravati da responsabilità per i contenuti che diffondono, il che vale tra l’altro a fornire loro un indebito vantaggio competitivo.

Si può quindi nutrire il sospetto che la posizione assunta da Zuckerberg sia volta a tutelare – più che la libertà di espressione degli utenti – la libertà della sua creatura dalle regole del diritto. Una libertà grazie alla quale le grandi piattaforme hanno acquisito un potere economico senza uguali nella storia. Le piattaforme controllano l’accesso ai mercati digitali, i quali hanno ormai assunto un assetto rigidamente oligopolistico. Ed è in corso un rapido processo di digitalizzazione, che grazie ai progressi dell’intelligenza artificiale è destinato a investire non solo l’intero settore terziario.

Un potere economico di queste dimensioni è per ciò stesso potere politico e rischia tra l’altro di debordare, grazie alla profilazione, in una forma di controllo sociale quanto mai pervasivo, la cui estrema pericolosità non ha bisogno di essere sottolineata. La chiave del business delle piattaforme è infatti la sterminata quantità di dati personali – vero petrolio della new economy, come è stato detto – che vengono acquisiti attraverso ogni singolo passaggio in rete di ciascun utente in virtù di transazioni implicite, diseguali e non trasparenti. In cambio della fruizione una tantum di un servizio, l’utente cede per sempre i propri dati, per di più senza avere idea né del loro valore economico, né dell’uso che ne verrà fatto (e che è peraltro non sempre corretto: basta pensare al caso Cambridge Analytica). Lo stesso inventore del web, Tim Berners-Lee, ha di recente manifestato le sue preoccupazioni per il fatto che alcuni software sono stati progettati «per fornire incentivi perversi a chi sacrifica i propri dati personali».

E allora, anche se la mossa di Trump è motivata soprattutto, se non esclusivamente, da calcoli elettorali, e anche se l’ordine esecutivo difficilmente potrà superare indenne il vaglio degli organi giudiziari, questa vicenda può fornire l’occasione per mettere in discussione un regime di irresponsabilità – risalente negli Usa al 1996 e nell’Ue al 2000 – che non trova più giustificazione alcuna né dal punto di vista della tecnologia, né sotto il profilo degli assetti di mercato. Su questa sponda dell’Atlantico, promette di agire in maniera meno estemporanea del Presidente americano, ma forse più efficace, la vicepresidente della Commissione europea Margrethe Vestager, la quale ha annunciato di voler promuovere un Digital Services Act, volto ad adeguare ai tempi il sistema normativo dell’Unione. Perché – come ha affermato con espressione di sintetica nitidezza – le piattaforme devono servire i cittadini, non il contrario.