Pier della Vigna e la selva dei suicidi per sfuggire alla gogna

Dante e Virgilio si trovano in un bosco che «da neun sentiero era segnato». I due poeti si addentrano in una selva dove gli alberi sono di «color fosco», con rami «nodosi e ‘nvolti». Una foresta buia, senza fiori e senza foglie, piena di «aspri sterpi» di spine velenose. Siamo nel settimo cerchio dell’Inferno, quello dove sono confinati i violenti. All’inizio del canto XIII, il centauro Nesso ha condotto Dante al di là del fiume Flegetonte, il fiume di sangue del primo girone, dove erano immersi gli assassini, coloro che hanno compiuto violenza contro gli altri, tormentati dalle frecce dei centauri. Ora si apre lo scenario da incubo del secondo girone, destinato a coloro che hanno fatto violenza contro se stessi. Siamo nella selva dei suicidi. Sui occidio, letteralmente “uccisione di se stessi”. Il termine, malgrado le apparenze, non esiste nel latino classico.

Una definizione tutta cristiana. Nella Roma antica il suicidio era un diritto che apparteneva a ogni singolo cittadino. La vita era un bene a completa disposizione dell’individuo e togliersela in determinate circostanze rappresentava un gesto di estrema virtù. L’Imperatore Marco Aurelio la vedeva addirittura come soluzione al «taedium vitae».
Qui però non siamo nei Campi Elisi ma in un tetro girone dell’Inferno. Sui rami scheletrici degli alberi nidificano e «fanno lamenti» le «brutte Arpie», animali mitologici già presenti nell’Eneide di Virgilio, con «colli e visi umani», ma dai «piè con artigli, e pennuto ‘l gran ventre». Metà donne e metà uccelli, le arpie sono i mostruosi giustizieri dei suicidi. «Sì vederai cose che torrien fede al mio sermone»: Virgilio avverte Dante che vedrà cose talmente strane che a raccontarle non ci crederebbe.

Una pena terribile, infatti, aspetta coloro che hanno commesso un atto innaturale, contrario alla legge divina. Un gesto sacrilego che offende la natura, la comunità e soprattutto Dio. Se uccidere è proibito, anche uccidere se stessi è vietato da Dio perché, come specifica Sant’Agostino, «chi uccide se stesso, non uccide altri se non un uomo». Tommaso d’Aquino rincara la dose: «gravius peccat qui occodit seipsum quam qui occidit alterum», la colpa del suicidio è perfino più grave del peccato di omicidio. Da allora la questione è rimasta aperta. Non si tratta certo di problema superato o relegato alle dispute medioevali. Come si può leggere nel Catechismo della Chiesa Cattolica, datato 1992 e ancora in vigore: il suicidio «è contrario all’amore del Dio vivente» e rappresenta «un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi». Chi si dà la morte nega che «siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato» anche se «gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida». In pratica, l’unica speranza di perdono è che il suicida non sappia cosa sta facendo.

Quando nel 2006 il Vicariato di Roma ha negato i funerali religiosi a Piergiorgio Welby ha precisato che «a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del dottor Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica». Insomma, il girone dantesco non è lontano dalle diatribe attuali. Come cantava Fabrizio de André nella Ballata del Miché il suicida «nella fossa comune cadrà senza il prete e la messa perché di un suicida non hanno pietà». Ma torniamo nella selva. Dante sente «d’ogne parte trarre guai», ma non capisce da dove provengono i lamenti perché intorno a sé non vede nessuno, pensa che i dannati siano nascosti tra gli alberi. Ma, su invito di Virgilio, Dante rompe un ramoscello. «Colsi un ramicel da un gran pruno; e ’l tronco suo gridò: Perché mi schiante?». Un gesto semplice, spezzare un piccolo ramo, dà vita a una reazione inaspettata che lascia il poeta smarrito: gli alberi della selva parlano.

«Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi» lo rimprovera il tronco dopo essere stato “ferito”. Siamo stati uomini e ora siamo piante: coloro che si sono “sradicati” volontariamente dalla vita si ritrovano, per la legge del contrappasso, forzatamente radicati a terra. La pena per i suicidi consiste in questa terribile metempsicosi vegetale che li trasforma in alberi scheletrici. Dalle venature arboreee sgorga sangue, la corteccia è la pelle lacerata. E insieme al sangue, in un contorcimento doloroso, escono anche le parole: gli alberi-suicidi possono parlare solo se feriti. Proprio l’anima di quel suicida gli rivela il triste destino dei violenti contro se stessi. L’anima del dannato «germoglia come gran di spelta», come un seme di gramigna, fino a diventare una «pianta silvestra». Le Arpie si nutrono delle sue foglie, la feriscono e queste ferite sono «al dolor fenestra», finestre per i lamenti di dolore.

Quando arriverà il giorno del giudizio l’anima dei suicidi non sarà “rivesta” del corpo perché «non è giusto aver ciò ch’om si toglie»: per contrappasso non è giusto avere indietro ciò di cui ci si è volontariamente privati. I corpi che «strascineremo» per la «mesta selva» rimarranno «appesi, ciascuno al prun de l’ombra sua molesta», sospesi agli alberi dell’anima che in vita gli fu nemica. L’io assassino sarà in eterno accanto al cadavere della vittima che lui stesso ha prodotto, al dondolante corpo dell’io assassinato. Uno scenario terribile quello tratteggiato da Dante, mutuato da riferimenti letterari dall’episodio di Polidoro descritto da Virgilio alle Metamorfosi di Ovidio Dante, però, non ha ferito un albero qualsiasi. I lamenti provengono dall’anima arborea di Pier della Vigna di Capua. «Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo», un uomo potente e temuto, un tempo al servizio di Federico II. L’unico a raccogliere le confidenze esclusive del sovrano «tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi», tanto da perderci il sonno e la vita. Pier della Vigna, infatti, è stato accusato di aver tradito quella fiducia e di essersi arricchito illecitamente. In breve tempo è processato per tradimento, condannato, accecato con un ferro rovente.

«L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto». Della Vigna si consegna alla morte per sfuggire al “disdegno”. Un gesto “ingiusto” volto contro lui stesso, colui che era nel “giusto”: per confermare la propria innocenza si suicida in cella. Ecco, dunque, il motivo del suicidio di quest’anima dannata. Pier della Vigna ammette di non aver retto alla vergogna, di non aver sopportato il patibolo costruito da un’opinione pubblica malevola. «La meretrice» che «nfiammò contra me li animi tutti» è l’invidia: vittima innocente dell’occhio invidioso dei cortigiani, non sopporta l’infamia delle calunnie (tanto pervasive da essere credute perfino dal sovrano) e in solitudine si uccide. Lo «spirito incarcerato» chiede a Dante di rivendicare il suo buon nome, di riabilitare la sua “memoria” riscattandolo da un’accusa ingiusta e da una gogna crudele.

«Tanta pietà m’accora» confessa Dante che forse si immedesima e in Pier della Vigna rivede se stesso, un intellettuale travolto da una condanna ingiusta dettata dall’invidia e dall’odio. E anche noi, al di là del giudizio storico sul personaggio, comprendiamo bene la disperazione con cui Pier della Vigna motiva il suo gesto estremo.
La cronaca ci ha tristemente abituati alle drammatiche conseguenze della gogna pubblica che distrugge una reputazione e isola l’imputato accusato sotto il peso di sospetti tendenziosi da cui è impossibile difendersi. Inchieste giudiziarie e processi mediatici che vivono di denigrazione e di umiliazione, con il favore di un’opinione pubblica che considera l’imputato sempre “colpevole fino a prova contraria”.

Se non ci convincono le parole lontane di Pier della Vigna che si suicida «credendo col morir fuggir disdegno», dovrebbe insegnarci qualcosa almeno la recente vicenda della dirigente del Miur Giovanna Boda, che ha tentato il suicidio a seguito di una gogna mediatica di rara ferocia, per di più con un’ipotesi di reato fumosa di cui ancora non si conosce la fondatezza. È tempo di portare luce nell’oscura selva dei suicidi dantesca. Come canta Fabrizio de André nel pezzo scritto di ritorno dal funerale di Luigi Tenco, suicida a Sanremo nel gennaio 1967: «Lascia che sia fiorito Signore, il suo sentiero / Quando a te la sua anima / E al mondo la sua pelle / Dovrà riconsegnare».

Contro il moralismo e il giustizialismo, De André contrappone un dio che salva e che non giudica, una misericordia che accoglie l’uomo senza rimproverargli le sue sofferenze e le sue fragilità: «Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai Santi Dio, fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte». Anche noi speriamo di allontanarci dai fuochi punitivi dell’Inferno che, a guardarli da qui, ci appaiono un patibolo “umano, troppo umano”. «Il tuo bel Paradiso l’hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso – ci ricorda la Preghiera in gennaio – per quelli che han vissuto con la coscienza pura l’inferno esiste solo per chi ne ha paura».