Pier Paolo Pasolini, che compie idealmente cento anni proprio oggi, è stato l’ultimo scrittore italiano del Novecento e il primo dell’epoca nuova: credo sia questa la ragione che spiega il suo persistere e prosperare nell’immaginazione collettiva non solo italiana. Aveva infatti, a partire dalla tesi di laurea su Giovanni Pascoli, profonde radici letterarie, coltivate e bruciate, un’agguerrita formazione culturale e financo filologica; inoltre i nuclei di riferimento da cui pareva avvinto furono sempre quelli dell’intellettuale moderno: la responsabilità sociale, lo sviluppo del senso critico, la tensione partecipativa che lo spingeva oltre la pagina, il palco e la pellicola, lasciandolo infine tramortito e solo.

Allo stesso modo, senza rinunciare alla tradizione da cui discendeva, volle incidere sulla propria carne viva il tema essenziale del nostro tempo: la dissoluzione dell’opera. Prima della rivoluzione digitale, che ha davvero sentenziato la fine dell’aura dell’oggetto unico preconizzata già nel 1936 da Walter Benjamin, frantumando in Rete i talenti e le forme che li rappresentano, Pasolini è fuoriuscito, come sbalzato, con mossa radicale e tragica, dai generi artistici pure praticati: se li è messi alle spalle, un articolo, un libro e un film dopo l’altro, deponendo a terra gli scudi per offrirsi a petto nudo, coi jeans stracciati e la maglietta sporca, al sacrificio supremo. Ostia come Hostia, in un cristianesimo sepolto e trafugato, secondo la suprema intuizione interpretativa di Giuseppe Zigania. Non a caso risultano incongrue per lui le esclusive e soffocanti definizioni di romanziere, poeta e regista. Ragazzi di vita e Una vita violenta, in quanto manufatti artigianali, non hanno retto alla distanza, scoprendo sempre di più la loro matrice artificiale. Anche Amado mio e soprattutto Petrolio, il capolavoro narrativo, non avrebbero la forza che hanno se a comporli fosse stato un altro: valgono perché sono stati scritti col sangue dopo aver passato il coltellino sulla piaga. Quando li leggi ti viene in mente lui. Tutta la vita che c’è dentro ancora pulsa e zampilla alla maniera di un geyser espressivo.

In fondo la stessa cosa potremmo dire per il teatro, per i saggi (Passione e ideologia, Scritti corsari, Lettere luterane, Descrizioni di descrizioni ne fanno il critico-scrittore più importante della sua generazione e soprattutto la poesia, pensando, ad esempio, al Pianto della scavatrice, uno degli innegabili vertici lirici, compreso nelle Ceneri di Gramsci: “Solo l’amare, solo il conoscere /conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto.” Quest’uomo, di cui tanto sentiamo la mancanza, ha saputo timbrare con l’inchiostro rosso, come pochi altri, i luoghi di Roma nei quali è transitato: “ma giù, a viale Marconi, / alla stazione di Trastevere, appare / ancora dolce la sera. Ai loro rioni, / alle loro borgate, tornano su motori / leggeri – in tuta o coi calzoni /di lavoro, ma spinti da un festivo ardore / i giovani, coi compagni sui sellini, / ridenti, sporchi.” E qui c’è tutto. Non dobbiamo aggiungere altro. Dove egli riuscì ad essere integralmente se stesso, come ormai tutti gli riconoscono, è nel cinema, direi specialmente all’inizio e alla fine: ogni volta che rivediamo Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo e quell’indimenticabile gioiellino di Che cosa sono le nuvole? con Modugno, Totò, Silvana Mangano e Ninetto Davoli in stato di grazia, comprendiamo la natura del genio che abbiamo ancora di fronte: come se in questa irripetibile sequenza visiva, nella frontalità folgorante dei visi, dei paesaggi e delle parole, fra la pittura veneta e le macerie dell’Urbe, Pasolini avesse compendiato il carattere italiano, superando – ora si capisce bene – ogni limitante schema sociologico.

Questo è accaduto perché ha saputo fermare per sempre con la telecamera l’energia vitale che ci contraddistingue. In una suprema chiave pedagogica, spirituale e non operativa, l’autore friulano ha coagulato la sua poetica. A ben pensare la corsa affannosa degli apostoli che stanno dietro al Nazareno, sullo sfondo della Palestina ricostruita sui Sassi di Matera, è la stessa dei ragazzi di borgata in giacca e cravatta (la camicia bianca si gonfia come una vela dietro le spalle di Ettore Garofolo, a Guidonia) che passano veloci sotto agli acquedotti imperiali. Prima del testamento finale, lugubre, solenne e ultimativo, di Salò o le 120 giornate di Sodoma, una delle riflessioni più intense sulle logiche di potere che mostrano in azione il male umano universale dentro la dimensione storico-politica del fascismo.