Più che “Dottor sottile” a Milano veniva chiamato “Piercavillo”, e non sappiamo con certezza se quello fosse proprio un complimento. Secondo il vocabolario, non tanto. Chi usa il cavillo è uno che fa un po’ il furbo. Tanto che proprio magistrati come Piercamillo Davigo gettano addosso il termine come un insulto agli avvocati. Ma lui non ha reputazione di “furbetto”, perlomeno era così fino a pochi giorni fa. Fino a quando l’ennesimo scandalo che sta travolgendo le toghe non ha fatto svolazzare corvi e uccellacci vari da Milano a Roma, passando per Brescia e infine deviando verso Perugia. Insieme ai corvi c’erano atti giudiziari secretati che passavano di mano in mano tra pubblici ministeri e membri del Csm. Davigo c’è dentro, ieri sentito come testimone dal procuratore di Roma, e non può cavarsela con le “barzellette”, questa volta.
In quel gruppetto di pubblici ministeri che palesò un tale narcisismo da definire se stesso quello degli uomini con le Mani Pulite, il dottor “Piercavillo” era il numero tre. Non perché fosse il meno importante, o il meno stimato, ma perché era entrato nel pool come aggregato agli altri due, Tonino Di Pietro e Gherardo Colombo. E poi divenne “Dottor sottile” o “Piercavillo” perché, mentre gli altri due sfilavano davanti alle telecamere, dopo aver sottoposto gli indagati a interrogatori in cui quel che contava era la confessione per evitare il carcere, lui passava il tempo a studiare gli atti e a trovare soluzioni. Astuzie? Anche. Proprio come fanno gli avvocati, quando scoprono che per esempio un pm o un gip hanno lasciato scadere alcuni termini perentori e il loro assistito deve essere scarcerato. Certo, se il cavillo è avvocatesco è una mascalzonata perpetrata alle spalle della giustizia, se lo fa il magistrato è un ganzo.
Gli altri del pool interrogavano, arrestavano, magari guardavano dall’altra parte mentre le carte volavano via dai loro uffici (ne volavano tante, visto che a volte erano i cronisti giudiziari a telefonare a casa dell’”arrestando” e “arrestaturo” per intervistarli sul loro immediato futuro) e poi andavano in tv. Piercavillo spulciava e studiava. Potremmo definirlo sobrio, in quei giorni, quasi come Monti con il loden e Draghi con la casa di campagna. Anche se, nel giro di un anno, era già lì a dire che si doveva “rivoltare l’Italia come un calzino” e, in riferimento a un’inchiesta milanese, che non c’erano innocenti, ma solo colpevoli e colpevoli che l’avevano fatta franca. Le svolte furono due.
La prima con il decreto Biondi, un provvedimento sacrosanto per ridurre la custodia cautelare, ucciso in culla dai ministri Bossi e Fini e che poco dopo contribuì a determinare, dopo uno sciopero generale per le pensioni, la caduta del primo governo Berlusconi. In quell’occasione il dottor Davigo fu insieme ai suoi colleghi protagonista di un’indimenticabile immagine in bianco e nero dei rappresentanti del Bene contro il Male, gli eroi che senza manette non potevano più svolgere il proprio lavoro.
Ma la vera svolta, l’inizio della seconda vita del riservato pubblico ministero arrivato a Milano dalle brume del pavese, fu la sua elezione, nel 2016, alla presidenza dell’Associazione nazionale dei magistrati, il combattivo sindacato delle toghe. Quel giorno, forse memore di quella foto, di quel successo assaporato quando gli uomini del Pool avevano minacciato le dimissioni contro il decreto di un governo (sempre nel nome della separazione dei poteri, off course), Piercamillo Davigo si trasformò in personaggio. Se prima aveva riservato a qualche colloquio privato nel suo ufficio con colleghi e qualche cronista milanese amico le sue battute sparate con la faccina furba e le sue barzellette giudiziarie, da quel momento tutto diventerà pubblica esibizione.
La sua forza? L’ignoranza degli altri, la subalternità dei giornalisti che non gli hanno mai fatto le domande giuste né le contestazioni giuste. Qualche esempio. Si è divertito per anni a raccontare che un imputato di uxoricidio, tra attenuanti generiche e rito abbreviato può essere condannato a cinque anni di carcere invece che a trenta. Quindi la conclusione paradossale: conviene di più ammazzare la consorte piuttosto che divorziare, perché si fa più in fretta. A questa “barzelletta” nessuno ha mai osato obiettare, sempre pensando “se lo dice lui che è il dottor sottile sarà vero”, finché l’astuto Piercavillo non ha incontrato nel cammino di una trasmissione tv l’avvocato Giandomenico Caiazza, il quale gli ha posto una semplice domanda: quanti casi del genere conosce? Uno, ha dovuto rispondere, e ha chinato il capo. Il Presidente dell’Unione Camere Penali ha messo in buca diverse volte gli argomenti dell’ex magistrato, forse domandandosi in che cosa fosse mai stato così “sottile”. Come quella volta che, avendo Davigo citato a ripetizione l’ipotetico vicino di casa che, alternativamente, scendeva le scale con addosso l’argenteria forse rubata (e quindi non sarebbe stato più da lui invitato), oppure era sospettato di pedofilia quindi non gli si doveva affidare la nipotina, fu costretto a soccombere sotto le contestazioni. Siamo sicuri che l’argenteria fosse rubata? E proprio a casa sua? E dove sono le prove della pedofilia? Eccetera.
La verità è che da quelle “barzellette” emergeva il suo convincimento dell’inutilità del processo. «L’errore italiano – ha detto più volte – è quello di aspettare le sentenze». Gli piace molto citare gli Stati Uniti, dove solo il 4% delle inchieste va al dibattimento. Se nessuno gli replica, nessuno saprà mai che in Usa non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e che il patteggiamento non è riservato, come invece è in Italia, a reati la cui pena prevista è sotto i cinque anni. Certo, nessuno gli replica, soprattutto dopo che il dottor Davigo è sbarcato, prima come il Grande Intervistato e poi come editorialista, sui lidi amici del Fatto quotidiano. Ne è diventato il reuccio.
È la sua terza vita. Il vero scoop l’ha fatto Marco Travaglio quando con tono incalzante e domande da levare la pelle, ha realizzato la Grande Intervista. Era più o meno un anno fa, tempi duri, la pensione e l’esclusione dal Csm non avevano certo messo di buon umore l’ex magistrato. Pure lui si era assoggettato con coraggio al giornalista più caustico di tutti, quello che non le manda a dire. Infatti, ogni volta in cui il direttore del Fatto lo incalzava con frasi roventi del tipo “ma davvero”, “e poi” o “e alla fine”, lui poteva dire in fila cose non vere, come per esempio che le norme sulla prescrizione esistevano solo in Italia e in Grecia e che i giudici italiani sono i più produttivi d’Europa. Tanto, chi poteva contraddirlo? Giocava in casa.
Ma la vera ciliegina sulla torta erano stati i suoi attacchi, precisi e mirati ai diritti della difesa e alla stessa categoria degli avvocati. Auspicando l’abolizione dell’appello e magari anche della cassazione. Fingendo di ignorare che in Italia ogni 100 indagati ben 75 sono scagionati già nel corso delle indagini preliminari e che circa il 40% degli arrestati risulterà innocente al processo. Tanto è abituato al fatto che nessuno gli replica. Forse non immaginava che pochi mesi dopo sarebbe crollato in quei due round televisivi sotto i colpi dell’avvocato Caiazza. Che gli ha demolito le sue “barzellette”. Le partite di andata e ritorno di un brevissimo campionato che non si è più ripetuto.
Ma il dottor Piercavillo ha risolto brillantemente, come sempre il problema, diventando editorialista del Fatto quotidiano ed evitando le domande e il contraddittorio. Peccato che fin dal suo primo commento, sull’affollamento delle carceri, ha già detto cose non vere, sul numero dei detenuti e anche sugli spazi vitali cui ha diritto il prigioniero in ogni istituto di pena. Tranquillo? Difficile, perché la nemesi storica è sempre in agguato. E il passaggio di carte e gli svolazzamenti di corvi e uccellacci vari paiono poco consoni al “dottor sottile”. E al dottor “Piercavillo”?