Integrazione europea versus sovranismo: è il discrimine fondamentale sul quale si misura oggi la principale sfida della politica contemporanea secondo Pietro Ichino, docente di diritto del lavoro all’Università di Milano, stabile riferimento dei riformisti italiani, con un decennio di esperienza maturata nelle aule parlamentari. Con lui proseguiamo il nostro ciclo di interviste sul riformismo.

Professor Ichino, perché il riformismo fatica ad attecchire in Italia? E perché, anche quando qualche seme sembra attecchire, la montagna partorisce un topolino e la reazione dei conservatori finisce col ristabilire lo status quo ante?
«Le cause sono diverse. Una prima sta nell’assetto istituzionale del paese: la nostra Costituzione, per la parte che riguarda Governo e Parlamento, è stata ideata proprio per tagliare le gambe a qualsiasi orientamento politico incisivamente riformatore».

I padri costituenti volevano difendere la neonata democrazia contro ogni rischio di possibile golpe, di destra o di sinistra che fosse.
«Sì, ma oggi il pericolo maggiore per la democrazia non è il golpe: è l’incapacità di impostare un’azione incisiva di governo che abbia anche solo l’orizzonte di una legislatura; è il potere di interdizione di fatto attribuito a chi si oppone al cambiamento».

Crescita, lavoro, impresa, contendibilità di ogni funzione: parole-chiave assenti dal discorso pubblico non solo del centrodestra, ma anche del centrosinistra.
«Al vertice del Pd sembrano interessare solo i diritti civili. Per la sanità e la scuola il Pd oggi rivendica solo un aumento della spesa pubblica, ma senza alcuna idea su come far funzionare meglio i servizi. Il programma del Pd è tutto “difesa di questo”, “difesa di quello”. Quando non c’è di peggio».

A che cosa allude?
«A un vagheggiamento nostalgico di decenni passati: al “ventennio ruggente” degli anni Settanta e Ottanta, come se quella fosse una sorta di età dell’oro perduta. Dimenticando che le radici dei problemi maggiori di oggi vanno cercate proprio in quel ventennio».

Per esempio?
«Penso soprattutto all’impennata del debito pubblico, della quale oltretutto la sinistra ha una parte rilevante di responsabilità. Alle strutture corporative che hanno ingessato la nostra economia, ivi compreso un regime di job property dominante nel settore pubblico e nella grande impresa. Ma anche all’isolamento del nostro paese dai flussi degli investimenti internazionali».

Può spiegare meglio?
«Se restiamo ultimi in Europa per capacità di attrarre gli investimenti esteri, è per un insieme di circostanze che negli anni Settanta e Ottanta, invece di essere corrette si sono aggravate: il peso del prelievo fiscale, della burocrazia, la lentezza della Giustizia, ma anche un’ostilità diffusa nei confronti delle multinazionali…».

… che non è, però, solo cosa di sinistra.
«Certo che no: è un atteggiamento bi-partisan. Da destra lo si motiva con la difesa dell’“italianità”, da sinistra con una pretesa intrinseca pericolosità delle grandi multinazionali. Il risultato è comunque un ambiente ostile all’investimento straniero, che si è manifestato in mille occasioni: basti ricordare le barricate in difesa dell’“italianità” di Alfa Romeo, Banca Antonveneta, Telecom Italia, Poste, Parmalat, e l’elenco potrebbe continuare a lungo».

Qualche responsabilità la hanno anche i sindacati maggiori: si pensi a come hanno affossato il progetto del Governo Prodi del 2008 di incorporazione di Alitalia in Air France-Klm. Lei ha affermato, invece, che il sindacato può svolgere la funzione di “intelligenza collettiva”, aiutando i lavoratori a scommettere sui progetti migliori delle imprese e facilitando i processi di innovazione. Può spiegare questa sua idea?
«Basta confrontare il caso Alitalia/Air France-KLM del 2008 con il caso Fiat di due anni dopo. Nel primo, i sindacati maggiori hanno fatto propri i pregiudizi dei loro rappresentati nei confronti della grande multinazionale del trasporto aereo: così hanno allungato di sedici anni l’agonia della nostra “compagnia di bandiera”. Nel secondo caso, una coalizione sindacale ha avuto il coraggio di guidare i lavoratori alla scommessa sul piano industriale fortemente innovativo proposto da Sergio Marchionne».

Da sinistra, però, le obiettano che ora Stellantis sta abbandonando l’Italia.
«Quell’accordo ha consentito alla più grande impresa automobilistica italiana di evitare il fallimento. Non credo che Stellantis abbandonerà l’Italia; ma se anche questo accadesse, l’accordo del 2010 avrebbe comunque allungato di un ventennio la vita della più grande impresa italiana».

I lavoratori ci hanno guadagnato?
«Quel piano industriale ha consentito la sperimentazione di un’organizzazione del lavoro che ha azzerato gli infortuni e le tecnopatie, automatizzando tutte le lavorazioni pericolose; ha ridotto fortemente la fatica del lavoro sulla linea di montaggio; ha consentito un salto in avanti nella qualità del prodotto; e ha notevolmente aumentato la produttività del lavoro rispetto alla gestione precedente. Non è poca cosa, ai chiari di luna che l’economia italiana sta attraversando».

La questione del lavoro povero è sempre più all’ordine del giorno.
«E al tempo stesso le imprese non trovano le persone di cui hanno bisogno: questo accade in tutti i settori produttivi e a tutti i livelli professionali, anche ai più bassi. La soluzione, dunque, deve consistere nel costruire percorsi efficaci per consentire ai disoccupati e ai male occupati di candidarsi ai posti dove il loro lavoro può essere meglio valorizzato. Questo si chiama “politiche attive del lavoro”, ed è la cosa più utile per combattere il lavoro povero¬. Nel centro e nord-Europa funzionano; da noi siamo ancora a poco più che all’anno zero».

Non servirebbe un salario orario minimo universale?
«Anche questa sarebbe una misura utile; ma avrebbe effetti soltanto marginali, nella fascia professionale più bassa. Attivare, assistere e incentivare la transizione delle persone verso le aziende più produttive, invece, avrebbe l’effetto di rimettere in moto a tutti i livelli l’aumento della produttività del lavoro, che in Italia langue da ormai un quarto di secolo».

La Cgil ha raccolto le firme per i referendum sulla disciplina dei licenziamenti, dei contratti a termine e del lavoro in appalto. Un’iniziativa contro il Jobs Act cui la segreteria di Elly Schlein ha subito aderito. Che cosa ne pensa?
«Non credo che in questi referendum si raggiungerà il quorum del 50 per cento dei votanti. Anche perché, a seguito delle riforme del 2012 e del 2015, la probabilità di essere licenziati in Italia non è aumentata neppure di uno zerovirgola e la quota dei lavoratori a termine sulla forza-lavoro complessiva è rimasta in linea con la media Ue, intorno a un sesto del totale. Chi ci ha perso sono stati soltanto gli avvocati, poiché tra il 2012 e il 2022 il contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti e contratti a termine si è più che dimezzato».

Contro il Jobs Act, però, si sono schierati anche i giudici del lavoro, che tendono per lo più a disapplicarlo nelle loro sentenze.
«Che alcuni giudici possano anche disapplicare arbitrariamente la legge vigente, non è una novità. Così facendo essi si pongono al di sopra della legge invece che al suo servizio. È questo solo uno dei fenomeni di resistenza al cambiamento necessario, di cui parlavamo all’inizio. Resta il fatto che la riforma dei licenziamenti del 2012-2015 ha armonizzato il diritto del lavoro Italiano rispetto a quello del resto della Ue, ovvero della regione del mondo in cui il lavoro è protetto meglio che in qualsiasi altra».

Per chiudere, torniamo alla politique politicienne: il riformismo vero ha bisogno di un suo partito, anche se piccolo, o è meglio che operi all’interno dei partiti maggiori?
«Dopo l’esperienza di Scelta Civica, che pure non rinnego, mi sono convinto che oggi in Italia il compito dei riformisti liberal-democratici e radicali è di essere il lievito e al tempo stesso la coscienza critica all’interno dei partiti maggiori più aperti alle loro istanze».

Indifferentemente a destra o a sinistra?
«Oggi il discrimine fondamentale della politica, in questa parte del mondo, non passa tra destra e sinistra, ma tra chi vuole una forte accelerazione del processo di integrazione della Ue e chi vi si oppone. Dopodiché, anche la distinzione tra destra e sinistra conserva un valore; ma, a ben vedere, un valore oggi meno rilevante rispetto al discrimine fondamentale».

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient