L'inchiesta
Pil +0.7% ma senza riforme non è primavera: quello che i numeri raccontano realmente
Gli italiani ormai ci hanno fatto il callo: le buone notizie sono merito del Governo in carica, le cattive di quelli precedenti o dell’Europa. Nessuno degli ultimi governi è stato parco nell’utilizzo della propaganda ma stavolta il livello è da primato.
In questi giorni i più audaci sostenitori del Governo parlano senza imbarazzo di “miracolo economico”. E i successi, sono, uno dietro l’altro: la discesa dell’inflazione, il tasso di occupazione, cresce la quota di lavoratori con contratto a tempo indeterminato. Le vittorie epocali su tutti i fronti.
I dati dovrebbero sempre essere valutati con distacco e capacità analitica.
Lo stato dei contratti
Alla fine del 2023 sul totale sono aumentati i contratti a tempo indeterminato. Alla fine dell’anno sono cresciuti di 145mila unità. Certo, e non è una cattiva notizia, rispetto a 10 anni fa i contratti a tempo indeterminato crescono di 1.47 milioni, mentre i contratti a termine di 779mila. Sono cresciute, complessivamente, le ore lavorate. A dare meno enfasi ai numeri importanti dovrebbe esserci l’analisi delle cifre alla luce del contesto: siamo un paese in pieno “silver tsunami” che invecchia, che perde giovani, in cui aumenta progressivamente l’età pensionabile e che resta intrappolato (come dice l’Ocse) in un low skilled equilibrium (le professionalità medie sono medio basse).
L’esplosione del part-time
Non solo, quando si parla di “lavoro povero” lo si fa coincidere solo con l’esiguità della paga oraria. Da diversi anni, specie nel terziario, viviamo l’esplosione del part-time involontario. Persone che lavorano 3-4 ore al giorno non per scelta i cui stipendi mensili sono sotto i mille euro. Anche per questo bisognerebbe analizzare nel medio e lungo periodo le correlazioni tra l’azione dei diversi Governi e i risultati di politica economica. La nostra inflazione è ancora alta, a febbraio è cresciuta dello 0,1% su base mensile e dello 0,8% su base annua. A ben guardare il tasso di occupazione è cresciuto negli ultimi anni (tranne l’ultimissima rilevazione) al 61,8%. Ma la media europea è al 75%.
Produttività e salari
Quando i salari crescono meno dell’inflazione, vuol dire che diminuisce il loro potere d’acquisto. Più della metà dei lavoratori dipendenti ha un contratto collettivo nazionale scaduto il che è particolarmente grave visti gli aumenti dei prezzi degli ultimi 3 anni. Come ricordava Ezio Tarantelli, è importante far crescere la produttività per far crescere i salari ma soprattutto (con i salari più bassi d’Europa) bisogna anche spingere sui salari per far crescere la produttività. Nel rapporto dell’ILO dal quarto trimestre 2020 cresce costantemente il rapporto tra salari nominali e salari reali, significa che l’inflazione è stata devastante, soprattutto dove non si sono rinnovati i contratti. Al 31 dicembre 2023 abbiamo speso 45.6 miliardi delle risorse del Pnrr incassate (dei 101.9 mld), più avanti vedremo se li avremo impiegati in cose utili o meno. Bisognerà spenderne 194.4 entro l’estate del 2026.
Il piano e i problemi del debito pubblico
Il Governo si è impegnato da subito a confezionare la sua versione di Pnrr che è impattata immediatamente nella Corte dei Conti. Quest’ultima, e le Regioni, hanno evidenziato i tagli sulla sanità mentre al contempo non avanza la sanità territoriale né le infrastrutture: abbiamo meno km di metropolitane in Italia di quelli della sola città di Madrid. Il piano è chiaro: definanziare alcuni progetti del Pnrr e finanziarli con altre fonti. Ma quali? Siamo lo stesso paese in cui la ragioneria dello Stato ha sottostimato di 70 miliardi dei costi edilizi. Paghiamo 100 miliardi di interessi sul debito pubblico e continuiamo a fare manovre economiche in deficit senza investimenti e riforme. Non solo, a gennaio la produzione industriale scende più delle previsioni a -1,2% mentre su base annua corretta sui giorni lavorati, scende del 3,4% (Istat).
Il vuoto dei trionfalismi
Dopo un anno e mezzo di “iniziative tricolore”, si inizia finalmente a comprendere che il Made in Italy non riguarda solo le confetture e il caciocavallo, ma l’industria manifatturiera, la meccanica, e si annunciano 6.3 miliardi sul piano transizione 5.0 per investimenti industriali tra il 2024 e il 2025 ma manca ancora il provvedimento. Il fatto che la “spesa automatica” tramite il credito d’imposta sia lo strumento che funzioni di più fa anche capire che c’è ancora molta strada da fare in tema di semplificazioni. È irragionevole dare tutte le responsabilità delle cose che non vanno all’ultimo governo. Ma il nostro paese ha bisogno di riforme coraggiose che lo modernizzino per essere più giusto e più forte. I trionfalismi spesso nascondono un vuoto di strategia e i numeri a leggerli dicono altro: il nostro Pil cresce dello 0.7%, quasi sufficienti per non parlare di recessione ma anche per bandire la demagogia.
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