Mi si consenta di andare diritto al punto finale, per poi spiegarlo nel resto dell’articolo: il recupero dell’economia italiana dopo il crollo dovuto a Covid e restrizioni è stato forte fino al 2022, mentre lo è molto di meno durante il 2023.

Quest’anno la nostra economia – dopo un inizio piuttosto solido – ha mostrato segnali di debolezza nel secondo trimestre, per cui sarà meno probabile arrivare a una crescita dell’1% del Pil reale durante l’anno. Ciò rende più faticosa la scrittura della legge di bilancio da parte del governo Meloni, perché meccanicamente il deficit (differenza tra uscite ed entrate dello stato) è più alto quando l’economia cresce di meno. Tuttavia, questo sentiero stretto potrebbe rendere la legge di bilancio più utile alla crescita economica di lungo periodo.

Per ragionare sul Pil (prodotto interno lordo) bisogna però comprendere bene il concetto stesso, partendo dalla distinzione fondamentale tra microeconomia e macroeconomia.

I microeconomisti si occupano del comportamento specifico di famiglie e imprese, che tipicamente passa attraverso l’acquisto e la vendita di beni e servizi (quando le imprese vendono alle famiglie o ad altre imprese) e di ore lavorate (quando le famiglie offrono ore di lavoro alle imprese): dunque ai microeconomisti interessa il funzionamento del singolo mercato dove questi acquisti e queste vendite avvengono, e in particolare il modo in cui si arriva al prezzo pagato e alle quantità totali scambiate.

Dall’altro lato, i macroeconomisti si occupano del funzionamento dell’economia in termini complessivi, per cui -sommando il fatturato delle diverse imprese che vendono bene e servizi ai consumatori finali, oppure il reddito che le famiglie ottengono vendendo i propri fattori produttivi a queste imprese – si arriva a una misura del reddito complessivo di un certo paese in un certo periodo di tempo.

Per definizione questo reddito complessivo è necessariamente uguale al valore di tutti i beni e servizi finali prodotti in quel paese in quel periodo di tempo: questo è esattamente il concetto di prodotto interno lordo (Pil).

Banalmente, un macroeconomista può raccontare la storia di un paese analizzando l’andamento del Pil nel tempo, più precisamente del Pil reale, il quale elimina dal calcolo l’effetto confondente dato dall’inflazione, cioè dall’aumento dei prezzi. Detto in termini semplici: se in un certo anno un certo paese produce le stesse quantità di ogni bene e servizio prodotte nell’anno precedente ma con un raddoppio di ogni prezzo, il Pil nominale raddoppierebbe, mentre il Pil reale “direbbe la verità” in quanto resterebbe identico da un anno all’altro.

Ebbene, la storia dell’economia italiana dal 2020 in avanti è fatta da un crollo “a v” del Pil a motivo del Covid, delle restrizioni e dei lockdown, che è stato rapidamente riassorbito tra la fine del 2020 e i due anni successivi (cioè fino al 2022). La forza di questo rimbalzo sembra in via di esaurimento nel 2023, forse a motivo del fatto che i consumi rimasti compressi nel 2020 e 2021 sono stati recuperati nei due anni successivi, ma con una fatica ulteriore data dal tasso di inflazione elevato.

Nell’ubriacatura keynesian-buonista dei trasferimenti a fondo perduto e dei prestiti a tasso agevolato contenuti nel PNRR capita che politici, colleghi economisti e commentatori dimentichino vagamente il fatto che nel medio-lungo termine il Pil può crescere a tassi più elevati se e solo se la crescita della produttività è maggiore che nel passato (sotto questo profilo è meglio stendere un velo pietoso su quanto accaduto all’economia italiana dagli anni 90 in avanti).

Tirando le file del discorso, il governo Meloni dovrebbe manzonianamente fare di necessità virtù, implementando una sequenza di leggi di bilancio in cui la riduzione e l’efficientamento della spesa pubblica ottengono il doppio obiettivo di tenere a bada il deficit spinto in alto da un Pil deludente e di contribuire alla crescita della produttività complessiva con un’amministrazione pubblica più snella ed efficiente.

Riccardo Puglisi

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