Nel Pinocchio di Matteo Garrone, bellissimo film co-prodotto dalla Rai che rivisita fedelmente la novella del burattino di Collodi, ci sono tre minuti e sei secondi di pura rivelazione. Intendiamoci, il film è tutto uno straordinario percorso di rivelazioni, come nella migliore tradizione di questa favola, ma ce n’è una che si compie con una efficacia che lascia senza parole. Una efficacia che nemmeno migliaia di prime pagine del nostro gagliardo giornale garantista potrebbero raggiungere. In questi tre minuti si rivela infatti cosa è la giustizia. Pinocchio si trova nel Palazzo di Giustizia. È un antro polveroso e male illuminato, dove due gendarmi lo conducono al cospetto del giudice-gorilla (un magistrale Teco Celio).

L’ambientazione e la mimica di questo giudice, i tic, la voce, il contegno, parlano più di qualsiasi trattato filosofico e morale sulla giustizia. Pinocchio racconta la sua vicenda, le monete d’oro piantate nel campo dei Miracoli, innaffiate e poi sparite con lo zampino di un Gatto e di una Volpe. Il giudice-gorilla ha un moto di compassione per il burattino («poverinooo…» commenta a un certo punto come un vecchio nonno) fino a quando quest’ultimo non compie l’errore fatale: chiede giustizia per essere stato derubato. E il giudice sorpreso si rivolge a lui e gli chiede: «Dunque sei innocente?». «Sì», risponde Pinocchio, «sono innocente». Come colpito da un riflesso pavloviano, il giudice si erge allora in tutta la sua sgraziata figura, gli punta il dito contro e gli intima la prigione.

Incredulo, Pinocchio, mentre viene portato via dai due gendarmi, chiede perché, da innocente, viene messo in prigione, e la risposta gli arriva proprio da uno dei due, che a mezza bocca gli spiega: «In questo paese gli innocenti vanno in prigione». E poi il giudice ribadisce cantilenando: «Gli innocenti vanno in prigione!» Il furbo burattino allora reagisce con prontezza, chiede di poter parlare. «Pure io sono colpevole», dice, e viene riportato al cospetto del giudice. «Anche io sono un ladro, ho rubato un maiale…». «È un po’ pochino…» gli oppone il giudice. «E anche una gallina». «Di più, di più…» gli intima il giudice. «E ora che mi ricordo – continua Pinocchio – anche un gioiello…». «Un gioiello?», si compiace il giudice, «…allora sì, complimenti, bravo bravo bravo: liberatelo!». E il burattino recupera la libertà, e mentre lascia il palazzo ci mette anche il carico, dichiarando di aver rubato così tanta roba da non ricordarsela neanche più. Tutti contenti, tutti felici.

In questa scena, per certi versi forse apparentemente diseducativa, ma la realtà non è mai diseducativa, c’è tantissima verità. Una verità appunto rivelata. Occhio, non stiamo dicendo che in questo Paese tutti gli innocenti vanno in galera, tutti i colpevoli sono liberi e tutti dobbiamo mentire di fronte al nostro giudice. Ma la forza simbolica di questi tre minuti ci pervade di una verità che spesso viene dimenticata, e cioè che la giustizia, in quanto esercitata da uomini imperfetti su altri uomini men che perfetti, non potrà mai che risolversi in un colossale ossimoro. È sempre nell’Uomo che va ricercata la causa delle sofferenze e delle ingiustizie che tutti noi viviamo. Fino a quando l’uomo non è autentico a se stesso e al proprio criterio fondante, egli non potrà produrre buone leggi, non potrà esercitare un buon governo sugli altri né una buona giustizia.

Ecco perché la favola di Pinocchio è sempre così attuale e ci tocca in grande profondità. Perché parla a ciascuno di noi della fatica di rinunciare ad essere burattini per farsi uomini. Una fatica necessaria se si vuole evitare di essere burattini giudicati da gorilla.