Il retroscena
Pittelli aveva denunciato i pm di Catanzaro, che fine ha fatto l’esposto?
«Eccellenza Lupacchini,
«Lei è l’unica persona alla quale posso rivolgermi e nella quale posso riporre tutta la mia fiducia.
«La giurisdizione calabrese e quella catanzarese, in particolare, ha abdicato completamente genuflettendosi dinanzi al potente di turno, personaggio privo di qualunque scrupolo morale e capace di qualunque nefandezza per il potere.
«…In questo lungo mese di detenzione, assieme ai miei collaboratori abbiamo ricostruito le vicende che, in un primo momento, avevamo ritenuto fossero completamente avulse dalla mia tragedia…»
Era il 20 gennaio del 2020, quando ricevetti la lettera manoscritta, datata erroneamente «Nuoro 11/3/2020», dell’avvocato Giancarlo Pittelli, all’epoca detenuto nel carcere di Badu e Carros dove era sottoposto al regime previsto dall’art. 41bis, di cui quello trascritto è soltanto l’incipit. Essa si concludeva con una disperata richiesta di aiuto: «Io La supplico di aiutarmi. Voglio che la verità si sappia e solo Lei può essere così forte e coraggioso da aiutarmi.» L’avvocato Giancarlo Pittelli, nel momento in cui, trovandosi in stato di detenzione, scriveva questa lettera, non era più, ormai da anni, l’uomo di potere di cui parlava nel 2007 Mariano Lombardi, all’epoca procuratore della Repubblica di Catanzaro, allorché aveva dichiarato, in due interviste a La Stampa e a Calabria Ora, che Luigi de Magistris sapeva da sempre dei suoi buoni rapporti con l’allora senatore di Forza Italia: «Un rapporto che in qualche occasione ha fatto comodo anche a de Magistris. Un rapporto, dunque, noto al pm e da lui anche utilizzato».
Mariano Lombardi, per dimostrare la fondatezza della sua affermazione, citò un episodio, che, pur senza dir troppo, lasciava intendere quanto, a quei tempi, «contasse» politicamente il senatore-avvocato Giancarlo Pittelli: «C’era un’indagine con parti offese magistrati di Reggio. Nell’indagine finiscono anche parlamentari di An: Angela Napoli, all’epoca vicepresidente dell’Antimafia, e Giuseppe Valentino, allora sottosegretario alla Giustizia. Capitò che vennero intercettati e registrati anche colloqui tra Valentino ed uno degli imputati, l’avv. Paolo Romeo. Il senatore Valentino era anche difensore di fiducia del Romeo, insomma quei dialoghi non potevano essere riprodotti per due gravi ragioni: lo status di parlamentare e quello di difensore di fiducia ed invece finirono sui giornali. Il presidente dell’Antimafia Centaro chiese chiarimenti e lo stesso fece il presidente della Camera, Casini. Insomma, stava montando uno scontro istituzionale terribile e noi avevamo delle difficoltà. Vengono da me de Magistris e Mario Spagnuolo, i due pm del processo in questione. Mi chiedono di fare qualcosa per saperne di più, parlo con loro e gli dico che conosco solo Pittelli ed allora gli telefono davanti a loro. Non mi faccia dire altro (…) Non so cosa fece Pittelli. So che io scrissi delle deduzioni che mandai a Camera e Antimafia. Erano deduzioni non certo esaustive, ma sta di fatto che le presero per buone».
Tutto questo non spiega, comunque, perché il detenuto Giancarlo Pittelli, ormai «fuori» dal giro politico che conta e raggiunto da accuse pesantissime, quel 20 gennaio 2020, si rivolgesse per aiuto proprio a me. Né capii allora e men che meno lo capisco oggi quale fosse l’aiuto che si aspettasse. È pur vero che quando ricevetti la sua missiva ero ancora il procuratore generale presso la corte d’appello di Catanzaro, tenuto, come tale, ad acquisire «dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti» (art. 6 d.lgs. n. 106 del 2006); ma era anche noto, specie a chi si occupasse di cose di giustizia, come il concreto esercizio di quel potere fosse pesantemente mortificato da una prassi prona agli interessi di esponenti normofobi dell’aristocrazia togata, allergici a qualsiasi forma di controllo.
D’altra parte, quel 20 gennaio 2020, era altrettanto noto come fossero in atto, addirittura in fase avanzata e irreversibile, le grandi manovre sinergiche del ministro della giustizia, della procura generale della cassazione, della sezione disciplinare e della prima commissione del consiglio superiore della magistratura, per rimuovermi dall’incarico: se mi si fosse stato contestato di aver fatto turpe mercimonio delle funzioni giudiziarie, magari ad adiuvandam concubinam, me la sarei anche potuta cavare con un trasferimento d’ufficio a una sede geograficamente «comoda», con carichi di lavoro agevolmente fronteggiabili e pure prestigiosa, ma a fronte dell’incolpazione mossami di un imperdonabile crimen lesae maiestatis, per avere dichiarato pubblicamente di non poter parlare dell’ecatombale operazione «Rinascita Scott», per il semplice fatto che di essa ignoravo tutto, visto che nessuno aveva ritenuto di informarne, come invece sarebbe stato doveroso, il procuratore generale, essendo più importante, invece, portarne a conoscenza la stampa; e, cosa ancor più grave, mi ero spinto a rivelare che il re era nudo, dichiarando che molte delle grosse operazioni contro la ’ndrangheta e la massomafia calabrese negli ultimi anni erano naufragate per evanescenza, «come ombra lunatica», dei rispettivi impianti accusatori. Insomma, affatto improvvidamente, il detenuto Giancarlo Pittelli, si rivolse proprio a me aspettandosi un non meglio precisato aiuto.
Ma perché, dopo quasi due anni dalla ricezione di quella missiva, ne parlo pubblicamente proprio e solo oggi?
Questo, naturalmente, non ha nulla a che vedere con la più recente missiva che lo stesso avvocato Giancarlo Pittelli, dal luogo di arresto domiciliare, ha indirizzato all’onorevole Mara Carfagna, già sua collega di partito, alla quale si è rivolto «In nome della vecchia amicizia» per farle presente la sua situazione giudiziaria: «Cara Mara, non potrei avere rapporti di corrispondenza con nessuno ma ti prego di credere che sono disperato. Aiutami in qualunque modo, io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente (…) Ti chiedo di non abbandonarmi perché sono un innocente finito nelle grinfie di folli per ragioni che rivelerò alla prima occasione. Grazie per quanto potrai fare». Una missiva che, finita in mano ai suoi inquisitori, ne ha determinato l’aggravamento della misura cautelare e il rientro in carcere, avendovi letto i giudici la «manifesta (…) volontà di incidere sul regolare svolgimento del processo».
La ragione è un’altra e sento di doverla disvelare. Io non tenni per me la lettera indirizzatami il 20 gennaio 2020, ma la trasmisi, ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale, alla procura della Repubblica di Salerno, competente a conoscere dei reati commessi da o in danno di magistrati del distretto di Catanzaro: essa veicolava, fra l’altro, una notitia criminis per un fatto di assoluta gravità e di indubbia rilevanza penale, che non potevo tenere per me. Una denuncia nei confronti di ben individuato magistrato operante a Catanzaro, articolata, precisa, almeno in apparenza documentata e corredata dall’indicazione di testimoni. Tutti elementi, insomma, idonei a verificarla. Dopo due anni, mi chiedo e voglio qui condividere l’interrogativo: sono mai state aperte indagini sulle gravi accuse mosse dall’avvocato Giancarlo Pittelli? Ammesso che indagini preliminari siano state avviate, due sono i casi: se la notitia criminis veicolata dalla missiva 20 gennaio 2020 fosse stata verificata positivamente, ne sarebbe dovuto conseguire l’esercizio dell’azione penale nei confronti del magistrato accusato e dei suoi eventuali complici; se, invece, la verifica della notitia criminis fosse stata negativa, la conseguenza avrebbe dovuto essere l’apertura di un procedimento per calunnia nei confronti dell’accusatore, fatto questo ben più grave della violazione meramente formale del divieto di comunicare con terzi non conviventi in corso di arresto domiciliare.
Nel silenzio tombale sulla vicenda, mi chiedo cosa sia realmente successo. E, con la logica, magari naïfe, del quisque de populo, mi chiedo come la solerte magistratura salernitana abbia proceduto in ordine a un accertamento doveroso, evitando il rischio di creare un qualche imbarazzo al potentissimo magistrato catanzarese chiamato irriguardosamente in causa dall’ avvocato Giancarlo Pittelli, per sua sventura ormai raté.
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