Quando si parla di recidiva nel nostro Paese spesso si citano dati approssimativi, anche perché le ricerche sono poche, e per lo più ormai datate. Vale la pena però leggere uno studio, “Pena e ritorno. Una ricerca su interventi di sostegno e recidiva” di Giovanni Torrente e Daniela Ronco, che per quanto limitato a una esperienza nel contesto piemontese, mette a nudo i problemi più spinosi, affermando che “la fotografia del sistema penitenziario italiano mostra come al di là di progetti estemporanei e circoscritti, la formazione e il lavoro in carcere risultano lontani dall’obiettivo della qualificazione”. Si parla proprio del “ruolo del carcere nel consolidamento del precariato”, quindi nessuna illusione sui percorsi di reinserimento, ma uno sguardo in un certo senso impietoso. Colpisce anche, e lo dico da responsabile di una realtà che riunisce moltissime associazioni di Volontariato nell’ambito penale, che da questo studio emerga che “purtroppo, il terzo settore non si afferma come un soggetto promotore di nuove forme di mobilità sociale”.

È tutta la catena della lotta alla recidiva, che dovrebbe iniziare da una carcerazione sensata, che invece non funziona. A partire dal lavoro in carcere, che dovrebbe essere un diritto, e invece riguarda solo 17.042 persone alle dipendenze dell’Amministrazione e 3.029 (dati DAP) che fanno un lavoro vero alle dipendenze di imprese o cooperative. Ma questi dati fanno arrabbiare anche perché è quasi scontato che lavorare per l’Amministrazione penitenziaria non fa imparare un mestiere, ma insegna a galleggiare senza professionalità e poi uscire dal carcere ancora più emarginati.

Provate a mangiare il vitto dell’Amministrazione e capirete quanto è lontana la realtà da quello che dice l’Ordinamento: “L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale”.

Una cosa è certa però: sono poche le ricerche sulla recidiva, ma vengono del tutto ignorate se i dati danno fastidio a quello che è il pensiero dominante nella società rispetto al carcere. Non si vuole concedere un’amnistia e un indulto, nonostante le condizioni di illegalità nelle nostre galere, e quindi si dice che dopo l’indulto del 2006 “sono rientrati tutti”. Ma il monitoraggio sulla recidiva dei beneficiari del provvedimento di indulto del 2006 (Manconi, Torrente, 2015) dice che i dati raccolti hanno mostrato come la recidiva dei fruitori della legge si sia attestata su livelli molto inferiori a quel che ci si aspettava. Nel 2011, a cinque anni dall’entrata in vigore del provvedimento, i rientrati in carcere risultarono infatti il 33,92%.

Eppure, si continua a fingere che più teniamo le persone in galera, più siamo sicuri, dimenticando quelle “bombe a orologeria” che diventano le persone detenute se scontano la pena come racconta la testimonianza di un giovane detenuto, arrivato in carcere provenendo da un ambiente già deprivato, e trovando, in istituti carcerari diversi, quasi ovunque ulteriore povertà educativa: “Mi è stato chiesto spesso in questi anni cosa fosse per me lo Stato e cosa volesse dire crescere in un posto in cui è pressoché assente. Nascere in un luogo così significa vivere in ambienti dove mancano le cose basilari, come doposcuola, parchi, posti per socializzare, dove, anche se sono consapevole che la responsabilità è sempre personale, è più facile che un ragazzo rischi di innamorarsi di fenomeni criminali, perché agli occhi di un adolescente la ‘malavita’ diventa la più semplice possibilità di scalata sociale.

Per cambiare tutto questo non basta una volante parcheggiata per strada o l’esercito nelle piazze, bisogna garantire un progetto alternativo ai giovani, altrimenti il fenomeno della malavita attirerà sempre i ragazzini. Se questo vale per le città, è ancora più vero per le strutture detentive. Io ho cambiato 13 carceri, ma se all’interno del carcere sono le istituzioni che non garantiscono la legalità mi chiedo come possa essere credibile ai miei occhi uno Stato che pare solo pretendere, senza mai considerarci degni di ricevere qualcosa in cambio. Come ci si può fidare di un’istituzione che non ammette quasi mai i propri errori, ma allo stesso tempo non accetta che degli sbagli vengano commessi da chi spesso si trova in situazioni opprimenti, perché privato della propria libertà e lasciato solo a guardare il soffitto?”.