Ieri è entrata in vigore la riforma delle intercettazioni. Oggi ne discutiamo con Giorgio Spangher, Professore emerito di Diritto Processuale Penale presso l’Università di Roma “La Sapienza”. A suo parere la parte peggiore della riforma è quella che concerne l’inedita disciplina della cosiddetta “pesca a strascico” mediante il captatore informatico: il trojan.

Professore qual è il suo parere su questa riforma?
Sotto certi profili è una riforma che accentua l’uso dello strumento delle intercettazioni. È chiaro che tale strumento è da tempo fortemente usato dai pubblici ministeri, insieme all’uso delle video riprese. Le indagini ormai non sono governate più dalla prova dichiarativa ma da altro tipo di riscontri. L’aspetto positivo è quello dell’aver iniziato ad aggiornare gli strumenti tecnologici, sulla strada del futuro processo penale telematico. Ovviamente ci vorrebbero garanzie sugli strumenti tecnici: bisogna fidarsi e pensare che chi utilizzerà lo strumento lo farà in modo corretto, mi riferisco anche ai privati che forniscono la strumentazione. Quindi possiamo dire che si scrivono delle norme che sembrano positivamente ispirate – riservatezza, tutela dei terzi, non divulgazione – però poi dipende da come vengono interpretate ed applicate.

A proposito dell’applicazione, assistiamo ultimamente ad un ampio uso del trojan.
Si parla del captatore per quanto attiene alle telefonate ma sappiamo bene che prende anche i messaggi, le fotografie, tutto ciò che è nella nostra memoria, quindi si spinge ben oltre il necessario. Questo è l’aspetto di carenza della legge. Inoltre il problema che si pone riguarda chi lo usa, ossia i pubblici ministeri che sono i padroni assoluti della fase delle indagini. I giudici dovrebbero controllare maggiormente quelli che sono i presupposti, ossia la qualificazione dei reati, la necessità di ricorrere a questi strumenti. Purtroppo invece i giudici – non voglio dire che si appiattiscono sui pm – ma se il pubblico ministero prospetta un certo quadro investigativo, una certa qualificazione del fatto, il più delle volte autorizzano. E anche se poi quel fatto non è esattamente qualificato negli stessi termini, i risultati intercettati si utilizzano. E poi i giudici autorizzano le proroghe, anche per lungo tempo. E invece dovrebbero controllare i risultati.

Per quanto riguarda l’ampliamento dei reati, possiamo dire che questa riforma è anche figlia della spazza-corrotti.
Questa riforma si inserisce sull’onda lunga della legge spazza-corrotti, ed accentua anche i reati ampliando il raggio di operatività del captatore ai reati di criminalità economica. Lo spazza-corrotti rappresenta quell’elemento che ha saldato la criminalità economica e quella organizzata: tale parificazione, omologazione ha condotto all’utilizzo delle intercettazioni e alla possibilità di accedere tramite trojan anche nel domicilio privato a prescindere dal fatto che vi si svolga l’attività criminosa. È pertanto complesso non vedere in questa norma un pesante pregiudizio per i diritti costituzionalmente garantiti che mette a rischio la riservatezza del domicilio.

Nella riforma ci sono dei limiti anche all’attività difensiva.
Una intercettazione va interpretata, una voce va riconosciuta; il difensore però ha poco tempo per valutare una montagna di intercettazioni telefoniche. E questa è una operazione complessa. Inoltre il legale può ascoltare solo quelle che il pubblico ministero ha depositato davanti al giudice: per quelle che potrebbero portare dei risultati favorevoli all’indagato occorre che il difensore aspetti che vengano depositate. Il pubblico ministero – ripeto – è il padrone: decide quanto iscrivere, decide chi indagare, come qualificare il fatto, che mezzi utilizzare, se prorogare, e decide quando comunicare alla difesa quello che decide di voler comunicare. Ma il problema più grave a parer mio è un altro.

Quale?
La modifica che riguarda l’allargamento dei risultati delle intercettazioni: io intercetto Lei per un reato ma poi vado a cercarne altri. Si tratta della cosiddetta pesca a strascico: avviata una intercettazione, sulla base di una ipotesi delittuosa prospettata dall’accusa, sarà utilizzabile tutto ciò che emergerà dall’attività di captazione, andando così di fatto alla ricerca di nuovi reati, nonostante la sentenza Cavallo delle Sezioni Unite della Cassazione.

Il Ministro Bonafede ieri ha dichiarato tramite una nota stampa: «Il Ministero rimarrà in contatto con i Procuratori e l’Avvocatura per raccogliere le segnalazioni circa le eventuali criticità che dovessero manifestarsi e approntare le relative soluzioni». Non sarebbe stato meglio dialogare prima?
Questa riforma che entra a regime è frutto di quattro rinvii: Bonafede aveva un problema politico di immagine. Un quinto rinvio sarebbe stato per lui inconcepibile. Del resto anche la fase Covid ha rallentato le interlocuzioni sul punto. Probabilmente il Ministro ha voluto marcare il punto: “ho fatto la riforma”. Come al solito se poi ci saranno problemi li risolviamo dopo.

Però paradossalmente è una riforma che scontenta non solo l’avvocatura ma anche parte della magistratura.
Bonafede ragiona in questi termini – e ha fatto bene lei a pormi la domanda – : invece di discuterne prima, ne discuto semmai dopo. Lui fa la legge e poi se ne parla. Adesso deve riformare il codice di procedura penale: non convoca i tavoli, non si sanno i progetti in cantiere. Si tratta di una tecnica per evitare forse i rinvii delle commissioni e i tavoli di studi dove è difficile mettere d’accordo tutti. Ha fatto lo stesso con le carceri: prima durante l’emergenza covid ha permesso che uscissero i detenuti per ragioni di salute, poi sono nate le polemiche per la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, e poi i dibattiti da Giletti e allora ci ha ripensato. Le leggi per avere un minimo di credibilità devono essere un punto di convergenza: lui per non rischiare di rimanere impantanato decide di andarsene per conto suo. Poi nascono i problemi e deve per forza affrontarli.