Addebitare alla Corte dei Conti il rallentamento, anzi “la debolezza” dello stato di avanzamento del Pnrr italiano è come guardare il dito anziché la Luna che gli sta dietro. E la “Luna” in questo caso si chiama riforme strutturali del sistema-Paese che neppure il Pnrr sta riuscendo a fare.

Ecco il vero fallimento: non un asilo o qualche colonnina in più per il rifornimento elettrico o idrogeno, un tratto di ferrovia elettrificata o la digitalizzazione di beni e servizi; bensì il fatto che i tempi della giustizia sono biblici, che per avere una sentenza definitiva nel civile occorrono settimane e mesi dopo che il tribunale si è pronunciato (ma la cancelleria non riesce a dare comunicazione alle parti), che i tassisti in Italia sono i veri padroni delle licenze e chissenefrega se il servizio non funziona. E così ancora il servizio di trasporto pubblico, i permessi urbanistici per vendere o ristrutturare casa, il catasto, questo sconosciuto, per non dire delle licenze a privati che, dagli stabilimenti balneari agli ambulanti, continuano a sottrarsi alla legge sulla concorrenza.

Il Pnrr doveva essere per l’Italia l’occasione non solo di fare alcune opere ma soprattutto quella per cambiare il sistema paese e trasformarlo in un paese facile, con un pil strutturato e non in balia degli umori del turismo. Non è così, invece. E si continua però a parlare dei poteri di controllo sottratti alla Corte dei Conti con tanto di decreto e Fiducia in votazione oggi. Il dito e la Luna, appunto. Quello che dovrebbe preoccupare non è tanto il potere di controllo concomitante della magistratura contabile sottratto per decreto e con Fiducia. Come ha detto Guido Carlino, presidente della Corte dei Conti, al Parlamento e al governo, “non è il nostro lavoro di controller che blocca la realizzazione del Piano bensì la mancanza di mano d’opera qualificata, norme certe e semplificate”. Di questo si doveva occupare oggi il decreto PA.

Così come un altro decreto appena convertito un mese fa e soprannominato Pnrr. Invece si continua a fare decreti ma, per dirla con le parole del presidente dei sindaci italiani Antonio Decaro – i Comuni sono sotto accusa per l’incapacità di progettare e di realizzare, cioè spendere – “i Comuni sanno spendere, è il governo che non ci anticipa i soldi”. Non vale per tutti, è ovvio, alcuni piccoli comuni – più della metà degli ottomila italiani – non hanno tecnici o geometri o legali in grado di partecipare alle gare d’appalto, figuriamoci per seguire un cantiere. Un buco subito evidente a cui si è cercato di dare una soluzione con l’assunzione di “mille tecnici per il Pnrr”.

Peccato che fossero a termine – uno, due anni – che il governo Meloni non abbia provveduto alla loro stabilizzazione e che da settimane sia in corso una silente e drammatica fuga da posti di lavoro senza futuro. Un paradosso? Si, al cubo. Ma di questo si parla poco. Decaro fa una denuncia molto circostanziata: “I sindaci possono ottenere anche il 30% di anticipo di spese dal governo ma i doppi passaggi burocratici tra ministeri e comuni nei fatti vanificano questa opportunità. Serve un meccanismo automatico per gli anticipi. Al momento c’è solo per l’edilizia scolastica. Non per gli alloggi popolari, i parchi, gli impianti per i rifiuti e la rigenerazione urbana”. Di questo meccanismo di semplificazione non c’è traccia neppure nel decreto che oggi sarà votato blindato con la Fiducia.

Il Pnrr italiano consiste in 191,5 miliardi di cui 122,8 come prestiti e 68,9 di aiuti a fondo perduto. In più ci sono i 13 miliardi del React Eu per realizzare politiche di coesione in tempi rapidi (max due anni) e 30,6 miliardi del Fondo complementare governativo. Circa 135 miliardi per 138. 640 progetti finanziati. Tra le regioni guidano Lombardia, Piemonte e Campania. Nella prima relazione sul Pnrr inviata al Parlamento dal governo Meloni si parla di Pnrr “debole”, “fiaccato da inflazione, investimenti non attrattivi, difficoltà burocratiche per cui è necessario rimodulare i target”. Si prova, nella stanze di palazzo Chigi dove è stata trasferita tutta la governance del Piano (Draghi l’aveva messa al Mef, alla Ragioneria, e questa modifica ha rallentato tutto e di parecchio), a dire che le colpe sono del passato, che è stata ereditata una situazione “molto complicata”, che col Piano è “sbagliato e da rifare”.

Cosa complicata assai, come si è sempre saputo. Il problema è che il tempo passa, le modifiche non arrivano e il cronoprogamma degli obiettivi semestrali è saltato. Nella Relazione il ministro Fitto, plenipotenziario del Piano, parla di 120 progetti a rischio, quindi da cancellare o modificare. I ministeri che arrancano sono soprattutto due: Infrastrutture (Salvini) e Ambiente. A seguire Cultura e Istruzione. Su almeno nove misure il governo ha tirato una linea rossa: irrecuperabili. Si va dagli Studios di Cinecittà all’alta velocità ferroviaria con l’Europa del nord, lo sviluppo del biometano e il Piano Italia 5G.

I problemi del Pnrr sono tanti: della terza rata (21 miliardi, scaduta il 31 dicembre 2022) non c’è ancora traccia; così come dei 27 obiettivi (valore 16 miliardi) in scadenza il 30 giugno. Non c’è traccia delle modifiche che vanno presentate tassativamente entro il 31 agosto ma Bruxelles le chiedo prima. Il problema del Pnrr è che i 190 miliardi che l’Italia deve spendere sono inglobati in tutte le stime dei mercati. Ogni ritardo pesa sul Pil. Se nel 2023 non spendiamo i circa 40 miliardi previsti, ne risente il pil e quindi la crescita. Altro che Corte dei Conti.

Avatar photo

Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.