Il 31 luglio del 2019, Sebi Romeo, capogruppo del Pd alla Regione Calabria veniva posto agli arresti domiciliari nell’ambito dell’operazione “libro nero” con l’accusa di “tentata corruzione”. Secondo il pm, Romeo avrebbe promesso a un maresciallo della Guardia di Finanza l’assunzione di un parente in cambio di informazioni.  Il 26 gennaio del 2020 in Calabria si vota per il rinnovo del consiglio regionale, e Romeo viene messo in libertà il 10 dicembre, quando ormai i giochi erano fatti e le liste dei candidati stanno per esser presentate. Quindi non viene ricandidato anche perché il Pd, dopo meno di mezz’ora della diffusione della notizia del suo arresto, lo aveva sospeso dal partito. Ieri l’altro la Cassazione ha smontato tutto l’impianto accusatorio, stabilendo che «nel caso in specie è palese l’assoluta inconsistenza delle ipotesi di accusa, non solo per la scarsa portata degli elementi ulteriori… ma anche per l’irrilevanza di elementi desunti dalle prove inutilizzabili e che però ben si possono considerare a favore dei ricorrenti».

Quanto accaduto al capogruppo del Pd è un serio indizio del fatto che le elezioni regionali in Calabria sono state oggettivamente condizionate dalla magistratura. Ma il quadro si fa ancora più preoccupante se teniamo nella dovuta considerazione quanto successo qualche mese prima dell’arresto di Romeo, quando lo stesso presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, viene confinato per quattro mesi tra le montagne della Sila a seguito di un’ordinanza della procura di Catanzaro retta dal dottor Nicola Gratteri. Qualche mese dopo la corte di Cassazione ha definito il provvedimento restrittivo richiesto da Gratteri come frutto d’un chiaro “pregiudizio accusatorio”. La “politica”, ancora una volta, ha tuttavia chinato la testa dinanzi ai poteri che realmente comandano in Calabria così come la stampa nazionale e regionale s’è limitata a pubblicare i comunicati delle Procure.

Particolarmente grave sembra in particolare la posizione del Pd calabrese (commissariato) che non solo ha rinunciato a difendere i suoi principali esponenti ingiustamente accusati ma ha utilizzato i provvedimenti illegittimi della magistratura per individuare candidati forse più graditi ad alcune Procure. Ed infatti la partecipazione di Pippo Callipo, candidato dal Pd alla presidenza della Regione Calabria al posto di Mario Oliverio, alla manifestazione “pro Gratteri” del 18 gennaio scorso rappresenta la palese dimostrazione di quella sudditanza di cui sembra essersi resa protagonista la politica regionale nei confronti della procura di Catanzaro. Non è un caso che i votanti per le elezioni regionali in Calabria siano stati appena il 44% e tra questi ben 36mila abbiano consegnato schede bianche e nulle. Di fatto, hanno espresso il loro voto meno del 40% degli aventi diritto.

Sia chiaro, qui non si tratta di difendere Mario Oliverio o Sebi Romeo, e, meno ancora, il governo regionale che ha retto la Calabria dal 2015 al 2020. In gioco c’è qualcosa di ben più importante: innanzitutto la libertà dei cittadini che in Calabria è gravemente compromessa. Quindi l’autonomia della politica espropriata a favore di ristretti gruppi che detengono il potere reale ed infine la dignità delle Istituzioni democratiche gravemente compromessa da poteri non elettivi (spesso occulti) che sembrano perseguire fini estranei ai legittimi interessi dei cittadini. Il “caso Romeo”, la vicenda giudiziaria del presidente Oliverio come già i trasferimenti del vescovo Bregantini o del procuratore generale Otello Lupacchini rappresentano solo la punta della mattanza dei diritti civili in Calabria. A rileggere le motivazioni della Cassazione, si ha la netta impressione di una Regione a democrazia morente.