Popolo ed élite, come ricostruire la fiducia nelle competenze senza piangersi addosso

Viene presentato oggi a Roma (ore 17,30 presso l’Unioncamere, piazza Sallustio 21) un libro, firmato da molti autori, su iniziativa dell’associazione “Amici di Marco Biagi”. Il titolo del libro è “Popolo ed elite – Come ricostruire la fiducia nelle competenze” (editore Marsilio). Alla presentazione, tra gli altri, interverranno il deputato della Lega Giancarlo Giorgetti, il giornalista del “Corriere della Sera” Antonio Polito e il ministro della Salute Roberto Speranza. Qui di seguito pubblichiamo stralci della postfazione al libro.

Vladimir Putin, intervistato a giugno del 2019 dal direttore del Financial Times, Lionel Barber, alla domanda sulla reazione popolare contro le élites, rispondeva prendendo ad esempio il tema dell’immigrazione. […] «I sostenitori dell’idea liberale non stanno facendo nulla. Dicono che tutto va bene. Sono seduti nei loro accoglienti uffici, mentre coloro che affrontano i problemi non sono contenti». […] Dice il vero, Putin, quando afferma che le élites occidentali hanno sottovalutato il fenomeno migratorio. Si sono beate dell’opzione multiculturale immaginando un mondo aperto, senza confini, dove le culture diverse si mescolano in una nuova opportunità di apertura sociale per l’intera dimensione occidentale. Le élites hanno d’altronde eliminato i simboli e le tradizioni dei loro popoli considerandole segno di arretratezza culturale. Hanno rinunciato alla difesa delle nostre radici giudaico cristiane per non offendere le altre religioni. Hanno chiuso gli occhi di fronte alle barbarie civili compiute dalle culture islamiche, mentre sfilavano nelle capitali delle nostre città, saldando multiculturalismo e difesa dei diritti. […]

Ma dice il falso, Putin, quando ci fa credere di non essere élite, quando dice che la Russia è una vera democrazia perché lui è eletto direttamente dal popolo e non come da noi in Occidente dove i nostri leader sono scelti dal partito al potere. Ed evita di spiegare la sua soluzione al problema. […] Putin governa la Russia da più di vent’anni, vincendo elezioni con percentuali che sfiorano l’80%. Appartiene alla vera élite russa, provenendo dalle file del kgb. Putin afferma che il liberalismo è superato davanti a uno dei più autorevoli rappresentanti della cultura liberale occidentale che rinuncia a sollevare le contraddizioni del suo pensiero, abdica alla funzione di difesa del nostro sistema democratico, dello Stato di diritto. Ecco, in quelle poche righe si possono trovare i segni della crisi e dell’intelligente, cinica e spregiudicata politica di nuovi leader che usano quella crisi per il loro successo di popolo. Parliamo di una crisi profonda, della rottura del rapporto tra élite e popolo, della fiducia nel sapere, nell’esperienza, nella competenza. Ed è una crisi non solo italiana ma che investe tutto il mondo occidentale. […]

Trump vince le elezioni negli Stati Uniti, presentandosi di fatto fuori dal sistema dei partiti, perché sa cogliere il malessere del popolo americano generato dalla retorica del politicamente corretto di Obama, dal suo interesse esclusivo per il «nuovo» delle concentrazioni metropolitane e dal suo disinteresse per le grandi aree periferiche, dai fallimenti della sua politica estera. E i gravi errori dei deboli leader europei nell’aver evitato di creare le condizioni perché l’Europa potesse essere forte di fronte ai grandi eventi del nostro secolo, dall’immigrazione alla rivoluzione digitale, dalla radicalizzazione dell’Islam politico alla globalizzazione finanziaria e industriale, hanno generato leadership senza idee, senza visione, senza amore per il nostro futuro. E, proprio per questo, capaci di sfruttare appieno le fratture del nostro mondo, offrendo soluzioni che non hanno alcuna possibilità di reggere alla prova del tempo. Di fronte a questa situazione che sta generando continui terremoti nelle nostre istituzioni democratiche e che sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza del nostro continente ci sono tre differenti modi di reagire.

La peggiore delle reazioni al populismo è l’antipopulismo. Un’affermazione autoreferenziale delle élites in declino, che si aggrappano a valori astratti per sopravvivere a un altro turno elettorale. […] Poi c’è la reazione, chiamiamola così, del senso di colpa elitario: abbiamo sbagliato noi! Non ci siamo accorti che le persone sono più povere, che la trasformazione digitale avrebbe portato tanti a perdere il posto di lavoro, che l’immigrazione non è stata capita e governata, che abbiamo ecceduto nel liberismo sfrenato e allora dobbiamo fare le stesse politiche proposte dai populisti, ma noi siamo colti e le facciamo sicuramente meglio. […] Il lavoro che troviamo in queste pagine invece, a mio avviso, è la reazione più seria. La reazione di chi cerca di capire perché. Cosa è successo, quando è successo che le élites hanno perso la capacità di comprendere il loro popolo? Quando hanno perso la capacità di proteggerlo, di rassicurarlo? Quando hanno rinunciato al loro ruolo? […] Capire, infatti, è il primo passo di un lungo cammino necessario a ricostruire il rapporto di fiducia tra popolo ed élite. […]

Si è così arrivati alle radici più profonde della nostra crisi, a partire dalla fine degli anni Sessanta e dalla cedevolezza della cultura cristiana e riformista all’egemonia di élite alto-borghesi, minoritarie, anti-sistema. E così si è ridimensionato il ruolo della famiglia, è stata distrutta la scuola italiana, le politiche del lavoro sono state scritte solo per i garantiti, i sistemi di welfare sono stati interamente posti a carico dello Stato, si è semplicisticamente aggiunta l’enorme inefficiente infrastruttura legislativa regionale al già pesante sedimento regolatorio centrale. Su questa “cultura” si sono appoggiati non a caso i vizi del nostro sistema giudiziario e dell’informazione. Sono infatti degli anni Settanta le politiche che hanno cominciato a minare il nostro Stato di diritto e i fondamentali della nostra vitalità economica e sociale. Si produce lì il primo duro colpo all’etica della responsabilità. È lì che l’élite culturale autoreferenziale ha iniziato a generare le dinamiche che con sempre maggior evidenza hanno messo in discussione il benessere del nostro ceto medio conquistato negli anni della ricostruzione e dello sviluppo industriale. Essa ha difeso il proprio ruolo, non ha accettato il rischio e la concorrenza, ha preferito un Paese che arretrava dal punto della grande competizione internazionale pur di conservare il proprio status. […]

Una visione dello status quo da preservare, timorosa di ogni vero e profondo cambiamento. Imprenditori che non hanno cercato di generare nuovo mercato. Hanno avuto timore di una domanda pubblica differente che li costringesse a qualificare la propria offerta; della rinuncia agli incentivi in cambio di sistemi trasparenti e automatici di vantaggio fiscale dei quali potessero beneficiare tutti, anche i concorrenti; di metter in discussione le comode regole contrattuali centralizzate e omologate per non faticare con accordi in azienda legati alla produttività effettiva; delle ipotesi di taglio della spesa pubblica, premessa necessaria per la rivoluzione fiscale tanto evocata; delle riforme pensionistiche per poter scaricare sul debito pubblico il costo delle ristrutturazioni industriali; di ogni legittima contestazione del sistema giudiziario anche quando decimava le attività economiche del paese.

Aumentando così la diffidenza verso una classe imprenditoriale isolata e autoriferita. Pensiamo ai giornalisti, molti asserviti al mainstream culturale o agli editori in pieno conflitto di interesse. Travolti dal web, hanno perso capacità di indagine e di inchiesta. Hanno smarrito il ruolo di critica verso il potere e di guida culturale. Generando così sempre più diffidenza verso l’informazione dei media tradizionali e riversando sui social la domanda di informazione, con tutte le evidenti conseguenze dal punto di vista della qualità e dei rischi di manipolazione. Ricostruire la fiducia verso il merito e la competenza vuol dire mettere davvero alla prova merito e competenza. Vuol dire riscoprire i valori dello Stato di diritto, difendere le prerogative di una nazione che è forte se lo è nelle sue persone che si fanno società e nella sua flessibile capacità di innovare.