1. Salite con me sulla macchina del tempo: viaggeremo a ritroso fino al 1958. Nel suo terzo anno di vita la Corte costituzionale è coinvolta nella «polemica per la quarta poltrona»: quale posto compete al suo presidente nelle pubbliche cerimonie? Deve precedere o seguire il presidente del Consiglio? Il collegio affronta il problema nella seduta del 16 gennaio. «Lungi dal trattarsi d’una questione di protocollo», esso rappresenta «una grave questione sostanziale» perché la Consulta è un organo di recente istituzione, priva di tradizione, le forme sono proiezione del suo ruolo costituzionale e «la fiducia dei cittadini dipende anche dalle apparenze». Consapevole della propria relativa debolezza, il neonato tra gli organi costituzionali della Repubblica si preoccupa fin da subito di «ottenere il rispetto e la fiducia di tutti gli italiani» (così il suo presidente, Enrico De Nicola, nell’udienza inaugurale del 23 aprile 1956).

Ritorniamo al futuro. Oggi la situazione appare capovolta: la Corte costituzionale, infatti, ha molto investito nella costruzione di un saldo legame tra il “dentro” e il “fuori” Palazzo della Consulta. Se è vero che non è mai stata un inaccessibile sinedrio, è un fatto però che negli ultimi anni «il senso della Corte per la comunicazione» (Donatella Stasio) risponde a una vera e propria strategia istituzionale. Una policy teorizzata, implementata e rivendicata: sul punto, le relazioni annuali dei suoi presidenti (su tutte, quelle di Paolo Grossi, Marta Cartabia e Giorgio Lattanzi) compongono un memorandum a cielo aperto. Lo attesta il confronto tra passato e presente. Fino a ieri, l’interlocuzione privilegiava quella sezione qualificata di opinione pubblica che è la dottrina giuridica, ed avveniva per canali codificati: la motivazione delle sentenze, la conferenza stampa annuale del presidente, le sue parche esternazioni, i seminari ospitati alla Consulta. Oggi – parafrasando un suo presidente d’antan, Virgilio Andrioli – alla «lussureggiante casistica» delle sentenze di cui dispone, la Corte aggiunge una varietà altrettanto lussureggiante di strumenti comunicativi rivolti all’intera opinione pubblica. Vediamo quali.

2. Segnali di apertura sono venuti dal processo costituzionale, di cui sono state riscritte le norme interne. Attraverso l’allargamento del contraddittorio a soggetti terzi, la possibilità di audire esperti sulle questioni discusse, l’introduzione degli amici curiae (brevi opinioni scritte con cui formazioni sociali e soggetti istituzionali presentano in giudizio elementi utili al caso in esame), «la Corte si apre all’ascolto della società civile» (comunicato dell’11 gennaio 2020). Con la trasformazione dell’udienza pubblica in occasione di interlocuzione tra il collegio costituzionale e le parti del processo, «entra in aula il dialogo tra giudici e avvocati» (comunicato del 31 maggio 2022). Accompagnando – nei casi più rilevanti – la sentenza e il suo deposito con appositi comunicati stampa che ne offrono una sintesi chiara ed efficace, si spiega ai più una decisione altrimenti accessibile ai soli addetti ai lavori. Il processo costituzionale ha così «aperto le porte alle “voci di fuori”» (Stasio).

L’ellisse comunicativa, poi, si è allargata all’intera attività istituzionale della Corte, attraverso un uso efficace delle nuove tecnologie: il ricco sito web, la pagina per i media al servizio di chi fa informazione, il canale Youtube per «comprendere ciò che avviene all’interno del Palazzo della Consulta», l’App «per essere aggiornati in tempo reale sull’attività della Corte costituzionale», il suo profilo Twitter, l’account Instagram, i podcast dei giudici costituzionali che raccontano «le sentenze che ci hanno cambiato la vita». Parallelamente, è cresciuta l’esposizione mediatica del suo presidente ed è nato l’Annuario della Corte costituzionale, pubblicazione dal format moderno, patinato, divulgativo. Tutto ciò colloca «una Corte sempre più “dentro” la realtà» (così il suo presidente Giancarlo Coraggio).

Infine, i giudici costituzionali sono usciti da Palazzo della Consulta, per conoscere e farsi conoscere. La Corte ha così intrapreso il «Viaggio in Italia»: dapprima nelle scuole, poi nelle carceri, quest’ultimo documentato nei relativi “Diari” e in un riuscito docufilm per la regia di Fabio Cavalli, fruibili nel sito web. Forzatamente interrotto dalla pandemia, il viaggio è comunque proseguito in rete attraverso i dialoghi tra giudici costituzionali ed esponenti del mondo culturale, poi raccolti nella «libreria dei podcast della Corte», finalizzati a promuovere la cultura costituzionale. Né sono mancati grandi eventi pubblici, l’ultimo dei quali il 22 luglio scorso, in Piazza del Quirinale: il concerto Il sangue e la parola, ispirato a Le Eumenidi e ai lavori dell’Assemblea Costituente. Così la Consulta parla a tutti perché fuori incontri tutti, mentre dentro incontri solo chi ti capita (e, se sei al potere, solo chi ti fa comodo).

3. Interloquire, mostrare, capire e farsi capire: questo l’epicentro della comunicazione messa in campo. Una policy ambiziosa che non si esaurisce nella «conoscibilità del ciclo “produttivo” della Corte» (Lattanzi) o nell’acquisizione di dati funzionali all’esercizio delle sue competenze. Semmai, è un’esperienza comunicativa integrale, mossa dalla persuasione che «una Corte aperta sia foriera di una giustizia costituzionale più ricca» (Cartabia). Per capillarità, quantità e qualità comunicativa, si tratta di uno scenario inedito che ha polarizzato i giudizi dottrinali, con argomenti di buona stoffa da una parte e dall’altra: feconda apertura alla società civile o insidia per una Consulta risucchiata nello strepitus fori e nel circo mediatico? Ridefinizione della sua constituency o espressione di un criticabile suprematismo giudiziario?

Di questi temi si dibatterà domani, a Bologna, per iniziativa della rivista Quaderni Costituzionali e del suo editore il Mulino, in un apposito seminario dal titolo «Corte costituzionale e opinione pubblica. Genesi, forme, finalità». Delle tre relazioni introduttive, una (affidata al giudice Francesco Viganò) esprimerà il punto di vista interno alla Consulta, l’altra (Roberto Romboli) illustrerà le differenti valutazioni espresse in dottrina, mentre la terza (Tania Groppi) allargherà l’orizzonte oltre il cortile di casa, guardando alle scelte comunicative di altri Tribunali costituzionali. Seguirà il dibattito con la partecipazione anche di giornalisti che, seguendo per le rispettive testate la giustizia costituzionale, operano come medium tra Corte e opinione pubblica. Tutti – giudici, dottrina, operatori dell’informazione – avranno eguale voce in capitolo: i diversi pareri scateneranno pensieri, i pensieri suggeriranno idee, e le idee favoriranno soluzioni. Questo almeno è l’auspicio dei promotori del seminario, fruibile da chiunque in diretta streaming attraverso il canale digitale di Radio Radicale.

4. Si possono avere opinioni distinte e distanti sul tema. Ciò che non può sfuggire sono due questioni di sicuro “inter-esse”, cioè importanti e tra loro interconnesse. La prima è che i cittadini hanno bisogno di conoscere la Corte costituzionale. Sono loro i destinatari – diretti o indiretti – delle decisioni attraverso le quali esercita i suoi vastissimi poteri: in 66 anni di giurisprudenza costituzionale, infatti, non c’è settore del diritto (lex) e dei diritti (iura) con i quali la Consulta non abbia dovuto fare i conti. Con essa, i cittadini entrano inevitabilmente in contatto, quando promuovono un referendum o provocano una quaestio contro leggi di dubbia costituzionaità. È interesse collettivo, dunque, guardare dentro Palazzo della Consulta per capirne i meccanismi decisionali e per vedere se c’è qualcosa fuori posto.

A sua volta, la Corte costituzionale necessita di entrare in comunicazione con i cittadini. Le serve per disinnescare il rischio dell’autoreferenzialità, sempre incombente su qualunque giudice almeno tanto quanto il pericolo di una sovraesposizione mediatica. Ne ha bisogno per sottrarsi all’abbraccio mortale della politica, cercando in alternativa un consenso diffuso attorno al proprio ruolo istituzionale e alla propria attività complessiva. Le sue sentenze, inoltre, non sono impugnabili (art. 137 Cost.) e ciò ne fa l’organo di chiusura del sistema. Ma «proprio perché la Corte possiede l’ultima parola e, al contempo, non è infallibile, deve mostrarsi particolarmente aperta al dialogo pubblico» (Alessio Rauti).

Se così è, chiedere ai giudici costituzionali di risollevare il ponte levatoio di Palazzo della Consulta, più che inutile, è sbagliato. Il problema, semmai, è rendere visibile ciò che, ancora oggi, è relegato negli arcana imperii. Siano consentite, allora, due intenzionali provocazioni sotto forma di altrettanti interrogativi. Perché non introdurre l’istituto della dissenting opinion a garanzia della massima trasparenza nelle decisioni prese dalla Corte costituzionale? Perché non immaginare, almeno per i 5 giudici costituzionali eletti dalle Camere riunite, un esame parlamentare – sul modello statunitense – che ne vagli storia personale e orientamenti scientifici, per testarne l’idoneità al ruolo di garanzia cui sono designati? Attraverso il sito della Corte è possibile acquisire informazioni dettagliate sul suo presidente e i membri del collegio. Ma servirebbe averle prima, non dopo la loro entrata in carica. La risposta positiva alla prima domanda è nella disponibilità diretta della Corte. La seconda, invece, spetta al legislatore costituzionale, se vorrà assecondare una Consulta che si percepisce, e vuole essere percepita, come una casa di vetro.