Il capo del pool di Mani pulite
Povera Milano, se il suo eroe è Borrelli
Milano non merita questa macchia: l’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza per coloro che l’hanno resa grande, attribuita quest’anno alla memoria di Francesco Saverio Borrelli, colui che ha consentito fosse definita “Tangentopoli”, la città delle mazzette, la città della corruzione. Milano non è così. È una città generosa, colta, attiva, da sempre ben governata, dal centrosinistra come dal centrodestra. Le vicende giudiziarie, a maggior ragione poiché la responsabilità penale è personale, non dovrebbero modificarne lo skyline. Diversi sono i motivi per cui il consiglio comunale di Milano sbaglia a consegnare la moneta d’oro di Ambrogio, il santo protettore della città, in mani così sbagliate. Potremmo citare la disumanità con cui Borrelli rifiutò di consentire a Bettino Craxi, che di questa città è uno dei figli più significativi, mentre era esule e gravemente malato a Hammamet, di venirsi a curare e operare a Milano. E fu lasciato morire. Potremmo citare gli oltre quaranta suicidi figli della gogna mediatico-giudiziaria, per semplici informazioni di garanzia. Potremmo farne una questione politica. Ricordare quando Borrelli si pose fuori dall’assetto istituzionale con il ribelle “resistere, resistere, resistere”, gridato con stizza nella cerimonia più importante della magistratura, quella in cui si indossano ermellini e toghe rosse, l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Aveva preso di mira l’obiettivo di massima rilevanza, il presidente del consiglio e aveva puntato diritto al cuore di Silvio Berlusconi. Quasi si trattasse di un avversario politico, quasi come lo stesso Borrelli forre a capo del partito antagonista. Peccato però che nessuno l’avesse mai eletto. E non parve rassegnato neppure una decina di anni dopo, quando in una dichiarazione al Corriere della sera (27 maggio 2011) dirà con rammarico: «chiedo scusa per il disastro seguìto a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Con il che confermando quel che molti hanno sospettato: ma allora la sua e del pool era stata non una semplice azione giudiziaria, ma una vera attività politica, finalizzata a sostituire un potere con un altro?
LEGGI ANCHE – Ambrogino a Borrelli, schiaffo al socialismo italiano
Tutto ciò è gravissimo e sarebbe sufficiente al consiglio comunale di Milano a dire, nel giorno di S. Ambrogio del 2019, quel che già disse nel 2002, quando rifiutò di attribuire il riconoscimento al procuratore capo del capoluogo lombardo, un bel NO sonoro. Ma ben altri motivi ancora sussistono per quel no. Parliamo dei giorni in cui nella procura di Milano guidata da Borrelli saltarono le regole dello stato di diritto e quelle del codice dei galantuomini, cioè la procedura penale. E le regole per un magistrato dovrebbero essere sacre, dovrebbero dare la sveglia al mattino e l’insonnia durante la notte. Parliamo della tutela della libertà personale, del diritto alla difesa, della predeterminazione del giudice naturale, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, del giusto processo. Sono valori costituzionali che dovrebbero ispirare la vita, oltre che l’attività giurisdizionale del magistrato. Questi principi cui non si dovrebbe mai derogare in nome di un fine da raggiungere con qualunque mezzo. Pure, rileggendo la storia della procura della repubblica di Milano guidata da Francesco Saverio Borrelli, si vede con chiarezza quante volte le regole siano saltate. Basterebbe citare le dichiarazioni di persone che non gli erano nemiche, tutt’altro. Il pubblico ministero romano Francesco Misiani, che ha descritto l’ipocrisia dell’arbitrio sostanziale che si nasconde alle spalle della finta obbligatorietà dell’azione penale. Il professor Giovanni Maria Flick, ex ministro di giustizia, che ha denunciato il “pentitismo coatto”, cioè la violazione del diritto al silenzio da parte dell’imputato. Tutte critiche, neppure troppo velate, alla procura di Borrelli. Si potrebbe aggiungere infine, qualche nome, per capire anche la violazione del principio di uguaglianza davanti alla legge. Perché ad alcuni imprenditori come Romiti e De Benedetti fu consentito di presentare memoriali ed evitare il carcere e a Raul Gardini no? E perché, in violazione del principio del giudice naturale, furono scippate a Roma le inchieste sull’ex ministro Clelio Darida e l’ex presidente dell’Iri Franco Nobili, ambedue a lungo incarcerati a Milano e poi assolti? Per non parlare di Gabriele Cagliari, finito con la testa in un sacchetto in una cella di San Vittore. Ecco, per questo e molto altro Milano non merita questa macchia. Consiglieri comunali, non date questa medaglia a Borrelli, per favore.
© Riproduzione riservata