La presunzione d’innocenza non sarà certo scudata dal decreto legislativo approvato dal Governo, ma è un primo passo. Un passo timido per qualcuno, una sterzata pericolosa per altri. In mezzo non ci può che stare la constatazione atavica che il processo provoca danni che nulla hanno a che vedere con l’accertamento dei fatti e, invece, troppo hanno a che vedere con la reputazione delle persone coinvolte. E non sono gli imputati, si badi bene, i più esposti. In troppe occasioni sono le vittime a finire nel tritacarne, a essere passate al setaccio, a dover rendere conto dei propri comportamenti agli occhi di un’opinione pubblica che morbosamente è alla caccia di particolari, di pruderie, di risvolti.

La costruzione mediatica del mostro non è mai unidirezionale e, a volte, è impossibile stabilire a priori lungo quale piano incrinato scivolerà la biglia della benevolenza o quella delle stimmate contro il carnefice o contro la sua preda. Come e perché processo e media si siano incontrati e quando abbiano intrecciato questo insalubre connubio non è questione che possa essere risolta in poche battute. Sul perché sia così difficile spezzare questo legame, però, possono essere dette alcune cose. Le nuove norme non stanno tutte nel codice di procedura penale. Strano, penserà qualcuno. Ma come la presunzione d’innocenza è uno dei principi cardine del diritto e il suo “rafforzamento” non cade nel perimetro del processo? È proprio così. Le norme che hanno alimentato più polemiche non stanno nel codice del rito, ma in un oscuro ai più decreto del 2006 che riguarda l’organizzazione del pubblico ministero. E queste nuove regole disegnano una nuova disciplina dei rapporti del procuratore della Repubblica con la stampa e sono inserite in un grappolo di disposizioni tutte volte, come dire, a contenere gli slanci mediatici degli investigatori.

Riassumiamo in poche battute il percorso a ostacoli che il Governo ha immaginato per tutelare la presunzione d’innocenza. Fin dall’inizio niente frasi roboanti per intitolare le indagini; una moda presa in prestito dalle operazioni militari e dalla polizia americana, ma lì il pubblico ministero conta poco o nulla e un giudice è lontano chilometri. La soggezione del pubblico ministero a queste titolazioni guerresche non è casuale e rispecchia una pericolosa tendenza all’assoggettamento dei magistrati dell’accusa ai modelli operativi e lessicali delle forze di polizia. Per carità, nulla di sacrilego, ma se si vuol parlare anche di giurisdizione inquirente è bene recuperare un certo stile e non trattare gli indagati come “nemici”. Quindi, secondo pilastro, negli atti di polizia e in quelli dei giudici niente frasi taglienti e giudizi irrevocabili sul tema della responsabilità. L’indagato parlerà dopo, nel processo, ed è bene non servirlo alla pubblica opinione e ai tribunali come fosse bello e cotto, destinato all’immancabile condanna.

Troppi condizionamenti, dentro e fuori le mura dei palazzi di giustizia, trovano origine dal peso mediatico che il pubblico ministero ha impresso all’indagine, per cui diventa – come dire – difficile sganciarsi da questo cliché e arrivare con serenità a una scarcerazione o a una assoluzione. Senza contare il dramma delle vittime e dei loro parenti che, tante volte, ingiustamente suggestionati dalla propaganda mediatica che accompagna le loro vicende processuali, credono che il colpevole stia lì davanti a loro e che qualcuno lo aiuti a scampare la giusta pena. Quindi la comunicazione del risultato delle indagini diventa cruciale e su questo versante il decreto del Governo è prodigo di raccomandazioni e inviti alla cautela, più che di veri e propri strumenti di tutela. Naturalmente ci sarà chi se ne fregherà altamente e, in quel caso, stando alle norme, rischierebbe di brutto sul versante disciplinare, penale e risarcitorio. Difficile che qualcuno si mette contro un peso massimo del genere, ma comunque la via c’è e qualche potente di turno metterà mano alla pistola per far espiare al reprobo le sue colpe e rendergli il conto di averlo maltrattato innanzi alla pubblica opinione.

I poveracci mi pare difficile trovino anche solo qualcuno che sia disposto a far causa a polizia giudiziaria, pubblico ministero e giudici, ma tra gli avvocati non mancano i coraggiosi. sia detto per inciso, è il vero vulnus al regime della responsabilità civile dei magistrati cui aspira il referendum leghista; non rifletta sul fatto che si tratta di uno strumento per ricchi dalle spalle forti. A occhio e croce, si potrebbe dire che non si capisce perché si parli di bavaglio all’informazione, di blackout sul lavoro delle procure, del pericolo di ammutolire gli investigatori. A occhio e croce. Perché a leggere con più attenzione il decreto governativo c’è uno snodo che preoccupa oltremodo alcuni settori della pubblica accusa ed è proprio il fatto che le disposizioni più severe non siano state collocate nel codice di rito, ma nella legge che governa le carriere. Si fosse trattato di norme del processo ai più disinvolti sarebbe importato poco o nulla. Con quel che si sente da qualche tempo in tema di violazione delle più elementari norme sorge il dubbio che il processo sia inteso da qualcuno come un circuito in cui – troppe volte – qualunque sbrego sia tollerato, giustificato e, quindi, metabolizzato, salvo incontrare un giudice.

Ma se si mette mano all’ordinamento delle carriere la questione cambia, eccome. Nella lotta all’ultimo sangue per un posto direttivo, così ben narrata nella Batracomiomachia del dottor Palamara, è chiaro che incorrere in una violazione delle disposizioni sulle conferenze stampa può costare caro se un avversario la può lanciare sulla bilancia. Il nocciolo della questione sta nel nuovo articolo 5 del decreto del 2006 che sino a oggi prevedeva che il procuratore della Repubblica mantenesse personalmente, o tramite un delegato, i rapporti con gli organi di informazione. Questo giustificava il bivacco dei giornalisti nei corridoi di alcune procure della Repubblica alla ricerca di un contatto, di una chiacchierata, di un caffè propiziatorio. La mano del Governo Draghi ha aggiunto che questi rapporti con l’informazione debbono essere mantenuti «esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa».

Già la pandemia aveva assottigliato le fughe di notizie con quei palazzi di giustizia trasformati in bunker sanitari, oggi si è tracciata una linea di demarcazioni quasi invalicabile. Si dice che ogni rapporto con i media potrà essere mantenuto solo attraverso comunicati e, in rari casi, con conferenze stampa. Quindi, per dire, addio interviste, addio chiacchierate e ammiccamenti. Si potrà, per carità, parlare di leggi, di criminalità, di sport, di cucina, ma non delle indagini di cui si è titolari per magnificarle o pubblicizzarle. In queste poche righe si annida un grave problema e c’è chi lo ha capito molto bene. Una grande occasione per i tanti, tanti pubblici ministeri che in silenzio e con serietà conducono le loro indagini senza riflettori e senza svolazzi.