Si dice spesso che il progetto di Giorgia Meloni di costruire un forte partito conservatore non abbia futuro. Del resto, si dice ancora, l’Italia repubblicana non ha mai avuto nulla di simile. Ma non è vero. Sia pure nel breve periodo tra 1947 e 1953, il paese sperimentò un governo conservatore di ispirazione cattolico-liberale, di cui fu artefice Alcide De Gasperi. E neppure è vero che, a causa del particolare contesto del dopoguerra, quella stagione sia oggi improponibile. A ben vedere, i problemi che quel governo si trovò ad affrontare richiamano nodi politici assai attuali. Come l’alternativa tra rigore e demagogia, tra una visione strategica e un orizzonte elettoralistico, tra parlamentarismo e governabilità. E non soltanto.

Malgrado i decenni trascorsi, anche il paese – o quanto meno la constituency – a cui si rivolge Meloni presenta significativi rimandi al paese di De Gasperi. Quella italiana era e rimane una società moderata, al tempo stesso tradizionalista e disponibile alle innovazioni, segmentata fra statalismo e istanze individualiste. Una maggioranza silenziosa – oggi, spesso, astensionista – che nutre nei confronti dello Stato e della politica sentimenti di diffidenza, non privi peraltro di buone ragioni. Come dire che, per una volta, attualizzare la storia potrebbe essere utile.

E allora, facendo il gioco degli specchi, la prima domanda che andrebbe posta a Meloni è questa. Avrà la chiarezza delle idee che ebbe De Gasperi? Il leader trentino non esitò a dirsi antifascista, anticomunista e conservatore. Era contrario all’antifascismo giacobino, “quello impastato di rappresaglie, di bandi e di esclusioni”, come scrisse una volta. E tuttavia chiuse sempre le porte al Msi con intransigenza, fino al punto da entrare in conflitto con Pio XII, quando il Vaticano sponsorizzò, per le elezioni amministrative di Roma, una lista composta anche dai neofascisti. Ma era, al tempo stesso, anticomunista. Consapevole che con le sinistre non avrebbe potuto realizzare il suo programma, nel 1947 le allontanò dal governo, pur conoscendone la forza organizzativa ed elettorale.

Voleva – disse lui stesso – “un partito che si dichiarasse orgogliosamente conservatore”, che intendesse “innalzare, finalmente, una bandiera conservatrice”. Aveva il coraggio della politica, non calcolava col bilancino quanti dei suoi elettori sarebbero rimasti delusi dal suo antifascismo o dal suo anticomunismo. E varò infine un governo conservatore, dove spiccavano liberali eminenti come Luigi Einaudi e Giuseppe Pella, dove si dava spazio – senza le remore populiste del giorno d’oggi – a tecnici di alto profilo come Cesare Merzagora. Un governo che, di fronte al disavanzo di bilancio, all’inflazione, alla disoccupazione, fece scelte forti. Alle sinistre – che chiedevano politiche redistributive, la patrimoniale, l’aumento delle tasse – rispose con il rigore monetario, il contenimento della spesa, la stretta creditizia, la tutela del risparmio dei ceti medi.

Ma non per questo fu una stagione ideologica. Lo stesso Einaudi disse di rifiutare la contrapposizione tra statalisti e liberisti. E i governi De Gasperi si dimostrarono attenti agli squilibri sociali e territoriali del paese, presero provvedimenti a favore dei pensionati e dei salari più bassi, vararono la riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno, lanciarono il piano Ina Casa per l’accesso dei ceti medi e popolari all’abitazione di proprietà. La stella polare era il mercato. Nel 1949 venne firmato il GATT, che portava il paese dall’autarchia fascista al libero sistema internazionale degli scambi e poneva le basi per la nascita di un’economia esportativa. Quel conservatorismo si dimostrava, nei fatti, né demagogico, né antipopolare. Un’altra lezione che varrebbe la pena ripassare oggi. Ma è significativo anche l’esito della vicenda, che fu politicamente infausto. Le sinistre chiedevano provvedimenti mirati all’occupazione più che al pareggio di bilancio, mentre le politiche degasperiane avevano bisogno di tempo per mostrare i propri effetti.

Il paese non sembrava gradire strategie che promettevano sviluppo e però, nell’immediato, chiedevano sacrifici. E intanto emergevano le resistenze delle élite. I proprietari terrieri erano ostili alla riforma agraria. Certo è che, nelle amministrative del 1952, la Dc perse quattro milioni di voti rispetto al 1948. Per l’esperimento conservatore non c’era spazio? In realtà, furono soprattutto i partiti a mettere i bastoni tra le ruote. De Gasperi pretendeva un governo in grado di governare, con una maggioranza che gli permettesse di realizzare il suo programma. E a questo fine varò nel 1953 una legge elettorale che attribuiva il 65 per cento dei seggi al partito o alla coalizione che avesse avuto il 50 per cento più uno dei voti. Le sinistre la chiamarono “legge truffa”. Ma alle elezioni arrivò la sconfitta. De Gasperi mancò per un soffio il premio di maggioranza. I partiti avevano remato contro il rafforzamento dell’esecutivo. Un bivio, questo tra partiti e governabilità, che avrebbe afflitto il paese per decenni e che torna oggi nell’agenda di Giorgia Meloni.

A De Gasperi hanno dedicato una robusta biografia politica Piero Craveri (De Gasperi, il Mulino 2006) e un intelligente saggio, fresco di stampa, Antonio Polito (Il costruttore, Mondadori 2024). Ed è significativo che, in modo implicito il primo, dichiaratamente il secondo, uno storico e un osservatore dei fatti politici cerchino motivi di riflessione per l’Italia di oggi e di domani nella vicenda degasperiana. Certo, le assonanze non vanno esagerate. E tuttavia, nel bel mezzo di una lotta politica come sempre divisiva e ideologica, forse sarebbe preferibile, per la sinistra, mettere alla frusta la credibilità della conservatrice Meloni, confrontandola con quel modello apparentemente remoto costruito dal leader trentino, più che inchiodarla all’eterno Rubicone dell’antifascismo. E forse, per la stessa Meloni, potrebbe essere di qualche utilità riflettere sul pragmatismo liberale di De Gasperi, sulla (presunta) alternativa tra mercato e stato, sulla compatibilità fra rigore e welfare. E, non di meno, sul nodo decisivo della leadership di coalizione. O sulla necessità di costruire maggioranze adeguate ai progetti di riforma, che siano la riforma della magistratura o, a maggior ragione, la riforma della Carta.