Il nodo delle riforme
Premierato, da voluto a dimenticato. L’uscita a freddo di Giorgia e il jackpot del modello inglese

Il premierato, quello storicamente vivo e funzionante, trova, com’è noto, una sua incarnazione nel Regno Unito. Nella patria del parlamentarismo più celebrato accade che, per prassi sperimentata, il capo del governo in carica voglia chiedere e ottenere lo scioglimento anticipato della Camera dei Comuni, evidentemente guardando a vantaggi elettorali possibili o comunque, come nel caso di Sunak nello scorso anno, avendo l’aspettativa di ridurre un danno maggiore. Nel dibattito a singhiozzo – in verità poco avvertito dagli italiani – che si è svolto intorno al premierato elettivo fortemente voluto dalla presidente del Consiglio Meloni, non si è fatto gran cenno alla prerogativa del premier inglese di andare alle urne secondo la sua migliore postura. In verità si è proprio rimossa la memoria del modello inglese, che – come quello del cancellierato tedesco, altra forma di premierato che funziona nel vecchio continente – non conosce l’irrigidimento dell’elezione diretta, che invece rappresenta lo specifico della proposta meloniana.
L’uscita a freddo
Risale a qualche giorno fa l’ultima esternazione in cui la presidente, in un contesto prevalente di politica estera, guerre e difficili equilibrismi tra Europa e Trump, è tornata con enfasi a porre come prioritaria la riforma che introduce l’elezione diretta del capo del governo da parte del popolo. In verità l’uscita, a valutarla coi canoni di una politica che assegna alle parole di chi è “istituzione” un valore preciso diverso dai prolassi allocutori che impazzano nei social, è apparsa un tantino “a freddo”. Il provvedimento, che aveva avuto il primo sì dal Senato nel giugno del 2024 ed era arrivato alla Camera nello scorso ottobre, si era fermato in prima Commissione senza dare troppi segni di vivacità. Né si può giurare su improvvise accelerazioni dalla calendarizzazione in Aula per maggio, con l’aria generale che tira sul piano nazionale ed estero dal punto di vista delle priorità e urgenze. Comunque la riforma costituzionale – ripiegamento dall’originario desiderio di un presidenzialismo di stampo trumpiano – rappresenta “la madre di tutte le riforme”, insieme alle sorelle minori della riforma nordiana della Giustizia e di quella salviniana dell’autonomia differenziata, già inutilmente approvata perché destinata a una vasta manipolazione dopo i sostanziosi rilievi della Corte Costituzionale.
Cosa farebbe un premier inglese
Che cosa farebbe un premier inglese in questo quadro? Di fronte avrebbe uno scenario che vede un alleato di governo (Salvini) in perenne assetto guerresco con vocazione allo sgambetto; un contesto internazionale polarizzato tra Usa e Ue senza consentire una reale agibilità di manovra, ma permettendo solo di condividere i teoremi poco europeisti del falco cadetto Vance (si legga il FT); un panorama economico che ammassa nubi nere gonfie di guai, in particolare per i dazi dell’amico Donald, oltre che per le nostre storiche difficoltà in fase di evidenza dopo il doping del Pnrr. Di contro, la personale navigazione nel gradimento popolare del capo del governo regge gagliarda, complice l’incapacità da parte del maggiore partito di opposizione di rendere contendibile la corsa elettorale per la vittoria, anche per mancanza di appeal verso il corpaccione dei ceti medi, spaventati dalle parole d’ordine della sinistra-sinistra.
Il premier inglese coglierebbe al volo la condizione di vantaggio andando al voto anticipato, of course. In una botta sola si libererebbe dei compagni di viaggio scomodi e si avvantaggerebbe di oppositori in difficoltà, contando su un consenso personale che – seppur per sottrazione ad altri – ancora c’è: è meglio di un jackpot al Superenalotto. E quando ti ricapita? La presidente prenderà in considerazione la prassi Westminster style? Ne riparliamo dopo le elezioni amministrative.
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