Nei sistemi democratici che prevedono l’investitura popolare diretta del capo dell’esecutivo vi sono due punti fermi: uno è il limite alla rieleggibilità fissata normalmente in due mandati, l’altro è la rigida separazione fra l’elezione del Parlamento e l’elezione del capo dell’esecutivo. Cosi negli Stati Uniti e così in Francia dove può avvenire, e dove avviene, che il Presidente eletto non disponga della maggioranza del Parlamento e debba quindi tener conto nel proporre le leggi, ma anche nell’esercizio del potere esecutivo, di una espressione democratica, manifestata dal voto popolare, diversa dalla sua.

Il limite ai mandati e la separazione fra la fonte di legittimazione del legislativo e dell’esecutivo sono ambedue contemperamenti necessari del vasto potere che un’investitura popolare diretta assegna all’esecutivo. Ma, fra i due, il secondo è assolutamente cruciale: se si attribuisce automaticamente al capo dell’esecutivo eletto dal popolo anche una maggioranza del Parlamento, di fatto gli si consegna per tutta la durata del suo mandato sia il potere di fare le leggi sia di eseguirle, cioè gli si consente un potere assoluto e incontrollato. È vero che, alla scadenza, gli elettori avrebbero la possibilità di confermare o di chiudere quell’esperienza, ma fra un’elezione e l’altra sarebbe il ritorno ai sistemi autocratici che precedettero il costituzionalismo. I contrappesi al potere debbono esistere sempre e in qualunque momento, se si vuole la continuità della vita democratica.

La proposta di investitura diretta dei capi dell’esecutivo nasce dal peso eccessivo che nei sistemi parlamentari si attribuisce al legislativo da cui si teme possa discendere la debolezza e la instabilità dei governi (anche se ci sono sistemi parlamentari, come quello tedesco e quello inglese fino a tempi recenti, dove non c’è alcuna instabilità). Ma nella correzione di questi difetti dei sistemi parlamentari si può immaginare di stabilizzare l’esecutivo mediante l’elezione diretta e magari, come negli Stati Uniti, con un mandato che non può essere interrotto se non da un impeachment. Non si può invece assegnare all’eletto una automatica maggioranza dell’organismo parlamentare, perché a quel punto si giungerebbe all’unificazione del sistema sotto il comando dell’esecutivo. Se l’eccesso di peso del Parlamento rispetto all’esecutivo può produrre instabilità e inefficienza nell’azione di governo, l’eccesso di peso dell’esecutivo rispetto al Parlamento produce una riduzione tout court della democrazia. Sono due conseguenze completamente diverse e non dovrebbe esservi dubbio su quale sia la peggiore.

Questo è dunque il punto cruciale che rende inaccettabile il progetto di legge presentato dalla maggioranza nel novembre scorso e discusso in questi giorni in Senato. È grave che questa questione cruciale non emerga in tutta la sua rilevanza. In questi mesi la maggioranza ha riscritto larga parte del testo, ha cambiate molte formulazioni, inclusa quella relativa all’elezioni delle Camere, ma è rimasto il punto che considero il vulnus del principio democratico. Nella versione di novembre si leggeva: “Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri il 55 per cento dei seggi nelle Camere”. Nel testo modificato di recente dal Senato si legge: “La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività” (I corsivi sono miei).

Come si vede in un modo o nell’altro, nel dare ai cittadini il potere di scegliere il capo dell’esecutivo, si toglie loro il potere essenziale di scegliersi i rappresentanti in Parlamento e si trasferisce questo potere al Capo dell’esecutivo. Si dà a quest’ultimo la possibilità di scegliersi, con una legge elettorale che ancora non si sa come sarà, la maggioranza dei membri del Parlamento. Dunque c’è l’attribuzione ai cittadini di un potere di scelta accompagnato da una restrizione del loro diritto di scegliersi i rappresentanti nel Parlamento. Con una mano si dà, ma con l’altra si toglie il presidio essenziale della libertà che è storicamente costituito dalla scelta che i cittadini fanno del Parlamento.

Ritengo che anche coloro i quali giudicassero non inaccettabile l’idea in sé di una investitura diretta del “Sindaco d’Italia” dovrebbero chiarire che il loro assenso va all’elezione di un sindaco, non di un dominatore assoluto dell’esecutivo e del legislativo: un sindaco, non un padrone dell’Italia.

Giorgio La Malfa

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