Il furore giacobino
I casi Sala, Penati e Martina Rossi: prescrizione e processi mediatici
Il sindaco di Milano Beppe Sala è indeciso. Quando nel luglio scorso è stato condannato per il reato di falso in relazione alla retrodatazione di una carta per l’avvio dell’Expo, non si era ancora ripreso dallo choc che già gli si affollavano intorno i cronisti a chiedergli se avrebbe rinunciato alla prescrizione. La data ora è giunta e c’è solo da augurargli di ascoltare qualche buon consiglio dei suoi legali e di non rinunciare a quello che è solo un suo diritto e non certo qualcosa di cui vergognarsi, come se la lentezza (e in questo caso anche i conflitti) della magistratura fossero addebitabili all’imputato. Viene alla memoria la gogna cui fu sottoposto Filippo Penati, proprio per la sua indecisione sulla prescrizione di uno dei reati per cui era imputato. Torme di giornalisti-inquisitori lo hanno tormentato fino alla fine («Allora, rinuncia o no?»), finché lui, dopo aver accettato la prescrizione su un reato, non fu poi assolto dagli altri di cui era imputato. E poi ci è anche morto. Da persona semplice e non certo arricchita con la politica.
Succede ormai ogni giorno, mai come di questi tempi, e in particolare in questi giorni di furore giacobino, che l’istituto della prescrizione dei reati, che dovrebbe segnalare solo il fallimento professionale di pubblici ministeri e giudici incapaci di garantire nei tempi il “giusto processo”, venga considerato invece una macchia sulla reputazione dell’imputato, specie se si tratta di un uomo politico. È un meccanismo tipico di un Paese in cui regna di fatto l’ingiustizia. Nei Paesi anglosassoni di common law infatti la prescrizione non è prevista perché non ve ne è necessità, in quanto esiste un processo rapido ed efficiente, che garantisce sia la persona sospettata di un reato che la sua vittima, vera o presunta. Succede invece oggi in Italia che non solo ci sia un ministro guardasigilli che vuole tenere aperta all’infinito la graticola dell’incertezza per condannati, assolti e parti civili nel processo di primo grado, ma anche che questa sua posizione sia incoraggiata dalla grancassa dell’informazione. O almeno da una sua parte autorevole. Quella che continua a popolare di “mostri” le prime pagine, i video e i social. Quella smemorata che non ricorda come Enzo Tortora sia stato condannato in primo grado e poi assolto in appello.
Un secondo processo che, con la legge Bonafede, forse non sarebbe mai arrivato a conclusione se non anni e anni dopo, quando le testimonianze non più fresche svaniscono insieme alla memoria e alla giovinezza di tutti i protagonisti. Non si sarebbe mai fatta giustizia, forse. E la memoria di Enzo Tortora forse oggi sarebbe macchiata solo dal ricordo di una condanna ingiusta.
C’è una gogna costante che ormai insegue non solo gli imputati e i loro difensori, ma gli stessi giudici quando assolvono e soprattutto quando applicano l’estinzione del reato per prescrizione. Il processo, sia quello delle aule che quello che viene celebrato sui media, pare finalizzato non all’accertamento della verità ma solo alla condanna. Se c’è un’assoluzione o una prescrizione si intervistano subito i parenti della vittima i quali, per ovvie comprensibili ragioni, non possono che recriminare sulla decisione dei giudici. È il caso dell’ultimo esempio di pochi giorni fa al processo d’appello per la morte di Martina Rossi, una studentessa genovese di vent’anni precipitata otto anni fa dal balcone di un albergo di Palma di Majorca. La polizia spagnola aveva ipotizzato un suicidio, la stessa tesi sostenuta dalla difesa di due ragazzi di Arezzo, che sono stati invece condannati a sei anni di carcere in primo grado per tentato stupro di gruppo con l’aggravante di “morte come conseguenza di altro reato”. Questa seconda parte del reato è caduta in prescrizione. Del resto il fatto è del 2011 e la vera ingiustizia, per i parenti della vittima come per gli imputati, è l’eternità dei tempi che ci sono voluti per arrivare al processo di secondo grado, che ora è stato pure rinviato al settembre 2020. Poi si arriverà a sentenza e quindi alla probabile Cassazione. Ma è giusto che a questa graticola perenne per tutti i soggetti processuali si aggiunga anche quella mediatica?
Ci basta esaminare i titoli a tutta pagina dei due principali quotidiani italiani alla notizia sulla prescrizione di uno dei due reati. Corriere della sera: “Sconto di pena ai condannati. L’ultima beffa per Martina”. La Repubblica: “Morì per sfuggire allo stupro. La beffa delle accuse prescritte”. Non poteva mancare l’immediato commento del ministro Bonafede: «I genitori e lo Stato hanno diritto di avere una risposta certa, a un anno di distanza del primo processo». Non una parola sugli imputati né soprattutto sui motivi di tanto ritardo né su una eventuale intenzione di inviare gli ispettori a indagare al riguardo.
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