Abbiamo sempre saputo che la prescrizione del reato è tra le materie più politiche del diritto penale, che è a sua volta una disciplina a forte tasso politico. La prescrizione si pone a cavallo fra il tema della punibilità e quello della discrezionalità dell’azione penale. La punibilità è al centro, perché se si sceglie di allungare o abbreviare i tempi dell’oblio o del processo, per decidere nel merito o dimenticare, è evidente che si esercita o si limita il potere punitivo dello Stato: è un fatto che riguarda il punire o il non punire, e per tale motivo soggiace ai limiti dello statuto costituzionale del reato.

La discrezionalità dell’azione penale è pure al centro, perché quando la decisione dipende dai tempi del processo, se lo Stato impone di perseguire anche le bagatelle, deve poi consentire che l’eccesso di procedimenti e di fatti di reato sia selezionato da altri meccanismi, e la prescrizione è sempre stato uno di questi: infatti le recenti riforme (Orlando, Bonafede, e in parte la ultimissima del Governo omnibus) non incidono sul primo grado, dove si prescrive la maggior parte dei reati. E ciò esattamente perché non si può combattere la prescrizione finché non aumentino gli spazi per meccanismi di discrezionalità dell’azione, scelte di depenalizzazione di diritto o di fatto, o per altre forme estintive diverse. Si lascia così che i pm continuino a selezionare, anche attraverso le prescrizioni in primo grado, i reati da portare a giudizio.

È un dato di scienza della legislazione che impone i diversi meccanismi deflativi. Caesar non supra grammaticos (il principe non può comandare sulla grammatica).
Qui però il sapere scientifico è quasi terminato e tutto diventa molto politico. Per questo gli studiosi si limitano a porre veti piuttosto che a imporre soluzioni: che cosa non si dovrebbe fare.

Non si dovrebbe, per esempio, far dipendere la durata delle sospensioni o delle prescrizioni processuali da decisioni ex post del giudice quando ha già davanti un imputato in carne e ossa: perché è in gioco comunque la legalità del punire, che non va condizionata dalla decisione di singoli fatti o tipi di autore, anche se la si spaccia per una questione processuale, anziché di diritto sostanziale. Nomina tantum.

Il cittadino dovrebbe sapere che un omicidio colposo, ma stradale, si prescrive in 30 anni oggi. Più che un omicidio volontario non aggravato. Ognuno capisce subito quanta “politica”, contrabbandata per giustizia, contamini o colori questa materia.

Non si dovrebbe neppure consentire che un reato che si prescrive in 20 anni possa poi vedere “bruciato” il suo destino processuale in poco più di 3 anni (appello e Cassazione), qualora per esempio sia scoperto e deciso subito con un rito direttissimo, ma incontri poi lungaggini in fase di appello.

Qui c’è un conflitto tra l’istituto sostanziale (ancora pendente) e quello processuale che brucia definitivamente il processo molto prima che la prescrizione sostanziale (nell’ipotesi, di vent’anni) sia consumata. La logica sostanziale e quella processuale dovrebbero essere meglio armonizzate, non semplicemente affiancate.

I professori sono in imbarazzo. Alcuni hanno preparato una bella riforma su tante cause estintive, riparatorie, su misure alternative al carcere, nuovi poteri del giudice dell’udienza preliminare, che sono scelte di sistema, ancora parziali ma importanti, e invece si discute solo di prescrizione. Uno scenario impensabile nell’intero globo geopolitico internazionale. Perché quelle altre riforme non sono comunque da sole risolutive del problema cruciale che ha consentito di “far passare” anche le anzidette scelte di sistema (altrimenti neglette): e cioè, “velocità ed efficienza del processo” per incassare il Pnrr. Tra parentesi: chi non guarda con sconforto a udienze-lampo, sentenze prestampate, motivazioni le più liquide e sbrigative, superficialità programmate, discussioni strozzate o impedite dal calendario d’udienza, sospiri o rimbrotti del Presidente che non vuole ascoltare più e guarda l’orologio etc.? ebbene, è quello che ci aspetta di fronte a soluzioni pensate per snellire soprattutto i secondi gradi di giudizio, anziché per l’esercizio dell’azione.

Tutti sanno che la posta in gioco è quanti processi-reati mandare estinti davvero, perché la scienza della legislazione ci dice che in qualche modo lo si dovrà fare. Si deve “amnistiare” qualcosa.

Ora si è deciso di farlo tramite un istituto (la prescrizione del reato) che non è nato per accelerare i processi e favorire la punibilità, ma solo per limitare l’esercizio di un potere punitivo. Stravolgerlo e piegarlo a quel diverso scopo significa alterare i rapporti tra i princìpi e gli istituti giuridici. Mettere accanto alla prescrizione del reato la prescrizione dell’azione per svuotare la prima significherebbe inquinare la logica degli istituti giuridici. Se lo si fa si è poi costretti a molti aggiustamenti che non restituiranno al “sistema” una razionalità che si possa davvero insegnare, raccontare, razionalizzare. Si dirà che c’è stato un compromesso, che il diritto può descrivere più che illuminare veramente. E così potrebbe accadere a tutta la legislazione penale, se la si abbandonasse senza criterio a queste forme di “democrazia penale”.

Che non si pensi però che i giuristi possano insegnarlo come esempio di giustizia, quando è un caso di politica essa stessa in cerca d’autore, anche se qualche autore, dietro le quinte, c’è.
Ecco un’altra verità che i professori devono comunicare al principe: puoi scrivere tutte le leggi che vuoi, ma il diritto non puoi scriverlo tu. Tu puoi scrivere solo le leggi. Il diritto è cosa degli interpreti: studiosi, magistrati, avvocati. Tu puoi fare tanti bilanciamenti tra principi, ma gli istituti non si bilanciano, perché hanno una loro logica giuridica interna.
È invece decisamente politica la scelta se adottare una prescrizione più lunga o breve, e per quali reati, se aumentare la durata delle sospensioni, se stabilire una “sanzione processuale”. Di questo non si è parlato, ma a me pare che la vera questione sia decidere che il processo si estingue (una vera causa estintiva del processo), dopo che è durato un certo tempo. Ma se lo si può fare per fasi, ciò dovrebbe valere anche per il primo grado (oggi intoccabile per le ragioni dette): anche lì si dovrebbe poter estinguere il processo, non certo prescrivere l’azione. La prescrizione nazionale potrebbe così restare sostanziale (come ha detto la Corte costituzionale), ma venire sospesa dopo la sentenza di primo grado (non deve cambiare natura o qualificazione per questo: non sarebbe neppure in contrasto con la riforma Bonafede, sotto questo profilo!) e in ogni caso dopo un certo tempo il processo si estinguerebbe. La politica deve decidere quando. Non c’è scienza al riguardo.

Però quando si è optato per la prescrizione dell’azione, anziché per l’estinzione del processo, si è voluto orientare il futuro, il “nuovo” ora introdotto, verso la processualizzazione di tutta la prescrizione in generale, adottando in Consiglio dei Ministri (non so con quanta consapevolezza) opzioni giuridiche da sempre minoritarie nel dibattito nazionale e rigettate da Corte cost. n. 115/2018, ma apprezzate dalla Corte di Giustizia UE che aveva sollecitato quella processualizzazione nella esplosiva vicenda Taricco. È una scelta politicissima questa prescrizione ibrida, che porterà a forti rischi di prescrizioni retroattive anche sul versante della “cultura giuridica” della prescrizione sostanziale, come segnalato, oltre che da chi scrive (Prescrizione ibrida, cosa prevede la nuova norma metà di diritto sostanziale e metà di diritto processuale), anche da Giovanni Fiandaca, Domenico Pulitanò, Renzo Orlandi e da Paolo Ferrua nel successivo dibattito. Anche altri processualisti ora lo ribadiscono, con ulteriori argomenti degni di attenzione, sollecitando in un appello pubblico il ritorno alla vecchia prescrizione sostanziale. Un istituto che è stato riformato così tante volte, con sempre maggiori incongruenze e ormai innumerevoli sospensioni: peccato che non ponga un limite temporale al processo, ma solo al punire. E che il limite al processo non debba essere un ostacolo indiscriminato al punire è una delle poste in gioco. I processualpenalisti sbandierano ancora come sacro vincolo quello dell’obbligatorietà dell’azione penale, che tutti sanno essere un emblema fittizio. Proprio l’uso ‘mirato’ della prescrizione da decenni lo dimostra, e dunque non può la vecchia prescrizione essere invocata per assicurare quell’obbligatorietà che dribbla continuamente.

Le comuni perplessità rimangono tuttavia numerose. Tra queste un messaggio che ci unisce: che nessuno chieda agli studiosi, se vengono usati come tecnici-che-aggiustano-tutto, di diventare anche celebranti.