Prescrizione, da magistrato dico no alla riforma

Bisognerebbe guardare al bicchiere mezzo pieno e partire da lì per colmarne l’altra metà. E invece non accade. Partiamo da alcuni dati di fatto confutabili solo a prezzo di un’insopportabile conformismo. I giudici di primo grado sono quotidianamente schiacciati da una mole enorme di fascicoli (spesso urgenti) e quasi mai si stracciano le vesti di fronte a un reato prescritto. Quando qualche imputato rinuncia alla prescrizione lo guardano, in genere, un po’ di traverso con l’aria di uno che cerca rogne. Celia a parte della prescrizione, in verità, il nostro attuale sistema processuale non può fare a meno perché è l’unica valvola di sfogo, è solo il modo con cui i giudici monocratici di quasi tutte le sedi giudiziarie d’Italia sopravvivono al nugolo quotidiano di convalide d’arresto, di procedimenti per omicidio stradali o per colpa sanitaria di grande difficoltà, alla miriade di reati che sono stati rimessi alla sua cognizione e che ogni anno aumentano a dismisura (alcune dozzine in più dal 2008 fa oggi, ma il calcolo è a spanne). Nuovi reati spesso sospinti da una legislazione vittima di emergenze cicliche e che – come sappiamo da anni – scarica nel processo ogni inefficienza e qualunque distorsione sociale. Siamo, tanto per intendersi, la nazione in cui non si riesce a debellare neppure la fastidiosa presenza dei parcheggiatori abusivi, ragion per cui il primo decreto sicurezza Salvini ha previsto per questi il carcere nei casi di recidiva.

Si dice che la responsabilità della falcidia prescrizionale sia da addebitare alla riforma messa in piedi dal Governo di centro-destra del 2005, ma questo è vero solo in parte: 1) il fenomeno era imponente anche prima; 2) tant’è che a nessuno viene in mente di tornare al regime precedente suggerendo di abrogare la cosiddetta legge ex Cirielli; 3) la tanto vituperata Prima Repubblica governava, con una certa dose di cinismo e di saggezza, il problema dispensando cicliche amnistie e indulti.Prendiamo in esame questi ultimi due corni del dilemma.

Di amnistie inutile parlarne dopo la riforma costituzionale del 1992 che ha imposto «la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale». Quanto al perché nessuno proponga di ripristinare il regime ante Cirielli la risposta non è chiara, o forse lo è perfettamente, ma nel feroce dibattito in corso si preferisce mettere lo scomodo inciampo sotto lo zerbino. Azzardiamo un’ipotesi: non si pensa di tornare indietro perché è a tutti evidente che i reati continuerebbero comunque a morire di prescrizione e ciò a causa della grave inefficienza che ingrippa la macchina giudiziaria italiana, persa tra garanzie superflue e organici inadeguati. Tornare indietro vorrebbe dire solo praticare uno stolto accanimento terapeutico capace di far sopravvivere il reato e il processo solo per un po’ più di tempo di adesso, ma mai per un tempo sufficiente ad arrivare a una sentenza definitiva. Con l’ulteriore danno che la massa dei “morituri” ingolferebbe ancora di più le corsie dei tribunali gremite di malati e di casi d’emergenza, rischiando di portare a morte anche il più giovane virgulto.

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Secondo la profezia della riforma dal 2023 in poi la questione dovrebbe andare a risolversi. I tribunali da polverosi e mefitici lebbrosari gravidi di processi moribondi diverrebbero provvidenziali sanatori in cui ogni reato commesso dopo il 1° gennaio 2020 avrebbe l’insperata chance di essere immune da prescrizione. Tutto ciò grazie a un’ingegnosa terapia: la sentenza di primo grado.
Una sorta di miracoloso elisir che darebbe vita eterna al reato e al processo, destinati a sopravvivere, potenzialmente per sempre, dopo la decisione di primo grado. Si discute animatamente di questa cura immaginando che questa possa portare via anche la malattia, ossia le disfunzioni del sistema processuale, ma la questione è più complessa. A nessuno viene in mente di tener in conto i danni arrecati alle parti civili, alle vittime dei reati, alla collettività, ai parenti, ai vicini di casa, ai colleghi di lavoro chiamati a convivere con un altro malato, questa volta non guaribile e, anzi, contagiato potenzialmente per sempre: l’imputato ovvero il sospetto colpevole. La presunzione di innocenza in Costituzione, lo sappiamo, proclama che nessuno può essere considerato colpevole sino a una sentenza definitiva, ma questa presunzione, in questo Paese, è un bene, come dire, facilmente deperibile e che, spesso, non sopravvive alla prima ondata inquisitoria, soprattutto se ben programmata mediaticamente. I danni collaterali della durata del tutto imprevedibile del processo sono enormi e non solo per gli indennizzi che saranno comunque dovuti dalla Stato per l’irragionevole durata del processo (legge Pinto). Certo gli idolatri dell’azione penale pensano che sono guai dell’imputato il quale, con incomprensibile ostinazione, insiste a proclamarsi innocente anziché patteggiare la sua pena e pretende, pensate un po’, persino un appello in caso di condanna. Ora se tutto il cerino della prescrizione resta nella mani del giudice di primo grado che deve, con una certa velocità, concludere il giudizio per evitare impicci e rimproveri, un appello è il minimo che ci si può aspettare, perché – statene certi – anche solo il rischio di quella fretta e di quella concitazione impone da solo forza un secondo grado. Naturalmente c’è chi – con spensierata innocenza – pretende addirittura di tenere insieme le due cose, ammirando l’idea di un processo esemplare come l’unico vero deterrente (come negli Usa) per indurre l’imputato alla piena sottomissione alle ipotesi d’accusa.

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Non dimentichiamo, però, la parte piena del bicchiere. Non è detto che, nel lungo periodo (diciamo dal 2025 in poi), le corti d’appello e la Cassazione vedrebbero per forza aumentare i propri carichi di lavoro, per effetto della mancata bonifica operata oggi dalla prescrizione che ha, soprattutto in appello, un’incidenza significativa. In verità potrebbero esservi dei benefici insperati: la soppressione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio dovrebbe, innanzitutto, assicurare una maggiore serenità nell’affrontare i processi, rifuggendo dal benché minimo sospetto che l’imputato l’abbia impugnato per arrivare a una prescrizione divenuta irraggiungibile. Certo il reprobo potrebbe lavorare per evitare una sentenza definitiva di condanna, ma qui veniamo agli auspici ultimi dei sostenitori della riforma. Se il reato non si prescrive l’imputato “reo” (solo per il suo foro interiore sia chiaro) ha tutto l’interesse a patteggiare la pena, se patteggia il processo si chiude e così appelli e ricorsi diminuiscono. Il tutto funziona a una duplice condizione: 1) che il processo in primo grado si concluda effettivamente entro gli attuali termini di prescrizione del reato, altrimenti anche i “colpevoli” non rinunceranno alla chance di tirarla per le lunghe e 2) che i reati siano scoperti tempestivamente ovvero senza che passi troppo tempo dalla loro commissione.

E qui le cose si complicano perché oltre il 50% dei reati si prescrivono già nella fase delle indagini ossia nelle mani dei pubblici ministeri e non (sempre) per inerzie, ma perché gli autori dei reati vengono scoperti con ritardo. Per il restante 50% circa la prescrizione si consuma in un periodo più o meno lungo (un 25% circa in primo grado). Questa cifra oscura (il 75% circa delle prescrizioni) non è direttamente scalfita dalla modifica approvata e può ritenersi che resti praticamente incomprimibile anche dopo la riforma che entra in vigore il prossimo 1° gennaio se non intervengono modiche strutturali profonde. Quindi si sta lavorando per salvare il restante 25% circa di processi, ossia i processi che si estinguono per prescrizione innanzi alle corti d’appello e, in minima parte, alla Cassazione. Qualcuno dirà che comunque sarebbe un buon risultato e che anche i detrattori della riforma potrebbero farsene una ragione. Forse è vero, ma un imputato a vita non giova alla collettività e genera costi economici (non solo indennizzi Pinto) e sociali non ben calcolati. Costi che, comunque, dovrebbero porsi in equilibrio con l’interesse che lo Stato dovrebbe conservare a punire (o meglio a sperare di punire, le assoluzioni in appello sono numerose) reati per lo più bagattellari, posto che i crimini più gravi sono già ora, e per fortuna, praticamente imprescrittibili.